A Fiumicino gli ascensori sono rari come le tigri bianche e in quelle tre scatole di vetro allineate ci sta un carrello. Benissimo. Molto japaneez ed essenziale come filosofia: un viaggiatore, un carrello. Non il nostro carrello. Uno qualsiasi dei tre. Due reggono in precario equilibrio le borse degli sci, tre a testa. L’altro sfora in larghezza a causa della gabbia del cane, grande abbastanza da farmi pensare di rinchiuderci dentro anche F, irrequieto figlio treenne che ha dormito integralmente il viaggio Torino-Roma e adesso è – ahinoi – sveglissimo e frenetico. M che ha 15 giorni dorme nel marsupio applicato alla mia pancia.
C ed io ci guardiamo. Io so che lui vorrebbe girarsi e camminare fuori dall’aereoporto, continuare per la tangenziale, per la campagna romana disseminata di reperti etruschi sotterrati, per tutti gli Appennini e le Alpi fino a una baita in cima a una salita e infine mettersi gli scarponi ai piedi. A quel punto sarebbe sereno perché C fa lo sciatore.
Lui sa che io vorrei urlare come un vichingo in mezzo al mare sfidando la polizia aereoportuale, vorrei schiaffarli tutti dentro all’ascensore e mandarli al -3 o anche all’inferno e infine piantarli tutti lì, M compreso – appeso nel marsupio al maniglione del carrello – e andare a farmi un pediluvio di sorbetti. A quel punto sarei serena. Però non sempre si può e comunque in nessun bar vendono sorbetti.
Quindi ci facciamo passare il tic dello scoiattolo dell’era glaciale e ci ripetiamo shanti shanti e shanti fino alla fine dei tempi e C inizia a smontare i carrelli. Borse da sci, valigie, gabbia del cane, zaini dei computer e inutili ammennicoli che non si sa come arruffano i volumi altrimenti compatti del nostro consueto viaggio verso il Sud America.
Tre mesi di viaggio seguendo la Coppa Sudamericana di sci. Le tappe – rimettendoci all’imprevedibile condizione della neve – sono: Ushuaia (Terra del Fuoco), Bariloche, San Martin, Esquel (Patagonia), La Parva (Chile) e di nuovo Ushuaia. Viaggio già fatto. Guardo C translucido di sudore che passa all’ultimo carrello. Non rimpiango romantiche fughe di un weekend senza neanche le mutande di ricambio, la nostra è una storia di nomadi con tutta la carovana dietro. Rimorsi per i bambini spazzati da raffiche di aria condizionata? Neanche uno (son vestiti alla sempreverde moda “cipolla”: metti strato, togli strato. Hasta la vista aria condizionata).
Perplessità sulla vita in orizzontale da pendolari stagionali? Certo, perché voglio sempre ciò che non posso avere oltre a quello che già ho. Vita orizzontale di pianure viste dai finestrini del treno, jet lags, suole bucate e cinghie delle valigie rotte, oppure vita verticale che sale sui muri di una casa, abbraccia piante seminate e cresciute e accoglie amici, nonni e mamme per cena?C ha finito: vado giù con un carrello e i bambini e rimando su l’ascensore perché completi l’opera. Borsoni blu, trolley con vestiti di ricambi e nelle borse da sci sono cacciate scarpe, jeans, coperte di pile, perfino un aggeggio tiralatte e oli essenziali. Sorrido e penso che non si è mai coerenti fino in fondo, che non si può saltare solo sulle piastrelle bianche o su quelle nere, che si sceglie di viaggiare e poi ci si porta dietro qualcosa che ci faccia sentire a casa, che spergiuro sempre di essere essenziale e alla fine mi porto dietro i glitters per truccarmi. Non si sa mai, dovessero spostare capodanno.
Le porte metalliche si aprono: la schiena di C tira fuori l’ultimo carrello. Ci siamo. La carovana riprende il suo viaggio: fuori 40 gradi, dentro l’aria condizionata ci asciuga il liquido dagli occhi e per tener ipnotizzato F racconto La Bella Addormentata nel bosco con tutti i dettagli dei vestiti, frasi dette dal re e dalla regina (“Ce la riporteranno sana e salva, vedrai amor mio!“, “Oh caro, sono così in pena per la nostra cara figliola!“) e magie delle fatine. Astuzie da mamma per sopravvivere nella giungla dell’aereoporto mentre un grasso passeggero orientale cerca di socializzare con F che si nasconde fra le mie gambe e C passa tavoli alla dogana bollando documenti come fosse il giro dell’oca.
È solo un’altra partenza. Un po’ fuori di testa (far volare il bambino a 15 giorni!) e un po’ autoconvinti (ma vuoi mettere come si rafforza il nucleo familiare?!), un po’stanchi morti ma senza mollare mai i bambini, un po’ ancora-qui-ed-ora e già molto-lì-fra-poco già che ci separano solo 15 ore da Buenos Aires. Un po’ saggi e un po’ cretini. A 45 gradi: l’angolo esatto della nostra vita fra verticale e orizzontale.
Chiara Dolza
Mamma in viaggio, portatrice sana di bambini.
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