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Rebecca è una bambina brutta, di una bruttezza che è difficile esprimere a parole. Non le manca nulla, sia chiaro, è solo che quello che ha ce l’ha al posto sbagliato, fuori asse, troppo grande o troppo piccolo. Naturale che la vita le si prospetti amara e solitaria.
Così, almeno, vuole farci credere l’autrice, nel raccontare la quotidianità di questa bimbetta un po’ storta che si affaccia al mondo degli altri, con la speranza di non arrecare troppo disturbo. In realtà Rebecca, che poi tanto sola non è, compensa la terribile bruttezza del suo corpo con un talento fuori dal comune per la musica. Suona il piano fin da piccola, con l’audacia e la delicatezza di una grande artista. Ovvio, e un po’ scontato, che la bruttezza non abbia intaccato lo splendore delle sue mani.
Il riserbo che la protegge da sguardi indiscreti crea sconforto e rabbia nel lettore, viene quasi la tentazione di prendere per il bavero della giacca il padre della piccola, noto ginecologo della città, e scrollargli di dosso l’indolenza che lo caratterizza. Lo stesso dicasi per la madre, troppo fragile per accettare un destino tanto crudele da averla salvata dalla tara per poi tornare a infierire sulla sua creatura. Amore e silenzio si bilanciano, alternandosi e compensandosi.
La narrazione è centrata spesso su aspetti secondari, su lunghe e interminabili descrizioni degli oggetti, dei luoghi, dei paesaggi. Si sente la mano della scrittrice allungare le sensazioni, perdersi nel piacere di impreziosire il racconto, eccedere laddove una sola parola avrebbe colpito in pieno viso.
La storia di Rebecca, come nelle migliori favole, racchiude in sé il male e il bene. La cattiveria della gente, coalizzata contro il mostro, e la bontà di una madre troppo fragile per parlare, di un maestro di musica buono e disponibile, di una maestra pronta a mettersi contro schiere di genitori infuriati pur di proteggerla. Rebecca, che il primo giorno di scuola incontra la sua amica del cuore – dalla quale non si separerà più, è il contrario di una bambina sola. In tanti le hanno voluto bene, aiutandola a crescere, sviluppando in lei un barlume di autostima e sicurezza. Nella vita è una che ce la fa, che ottiene risultati, che può ritenersi appagata. Nonostante la bruttezza. Finalista al Premio Strega 2011, questo libro della Veladiano ha un gusto retrò, il sapore di una storia lontana, raccontata da una nonna arzilla e romantica. Lascia però un senso di sospensione e amarezza. Troppe divagazioni e troppi dettagli appesantiscono quella che poteva essere una storia di speranza e riscatto. Un finale a tarallucci e vino che forse si poteva evitare.
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