Alvise era una persona buona. Si era sposato qualche giorno dopo la fine della seconda guerra mondiale, con l'incoscienza e la temerarietà del sopravvissuto, e il dono di nozze era stata una bella bicicletta, con la canna per portare la sua Maria ed affondare il viso nella nuvola ribelle, e profumata di sapone, dei suoi capelli neri. La bicicletta gli aveva permesso di abbandonare la campagna per raggiungere la città e la fabbrica, quel mostro nero e puzzolente che gli aveva ammalato i polmoni. Ma gli aveva anche consentito di crescere quattro figli, di comprare la lavatrice alla Maria, di ristrutturare la vecchia casa di famiglia facendola diventare un posto accogliente con il bagno, l'acqua corrente e la pergola dove sedersi, con l'amore della sua vita, su quella panchina di ferro, trovata chissà in quale vecchia caneva, ad annusare l'aria nelle calde sere d'estate raccontandosi, con i silenzi ancora carichi di emozione, come stava trascorrendo la loro vita. I figli erano stati il suo più grande premio, la sua rivincita sociale: i cuccioli trasportati sulla canna della bicicletta con il tempo si erano trasformati in donne e uomini fatti. Si erano tutte laureate, le ragazze. Il maschio non ci era riuscito, distratto dalla musica e dalla poesia, ma si era sposato una brava ragazza che faceva la pediatra e quindi era come si fosse laureato anche lui, per osmosi. Non si era mai lamentato, Alvise. Un uomo buono non lo fa mai. Solo una volta, quando il fato si portò via la Maria aveva protestato in silenzio: "Che fastidio ti dava a lasciarmela ancora un po'?" La città e la fabbrica erano ricordi lontani, i figli gli mandavo le foto dei nipoti con il cellulare e alla sera, seduto sotto la veranda, quella panchina di ferro diventava sempre più grande.
Una sera, dopo la silenziosa e solitaria cena, la panchina divenne più scomoda del solito. Non riusciva a stare seduto e non aveva neppure tanta voglia di pensare da solo. Inforcò la bicicletta e si diresse verso il paese che, grazie a Dio o forse ai pochi soldi che giravano, aveva mantenuto il vecchio volto, come se si fosse imbalsamato nell'immagine color seppia di un daggherotipo scordato appeso al muro. Una ventata di novità c'era stata, in effetti. Il sindaco aveva voluto togliere l'unico semaforo presente e sostituirlo con una rotonda, quella diavoleria europea che il Giuseppe si ostivana a percorrere a tutta velocità, con l'apecar che pendeva pericolosamente verso il basso. Era una rotonda piccola, anche carina, se così si può definire un anello che avvolge un crocevia di strade, con i mattoncini rossi che facevano tanto ristrutturazione finto antico, il tappeto erboso che aveva visto tempi migliori e i piccoli cespugli un po' arruffati, come se in un giardino all'italiana delle dimore rinascimentali avessero permesso ad una classe di seconda elementare di giocare a rincorrersi. Appoggiò la bicicletta in equilibrio sul pedale - delicata armonia che i giovani non conoscono più - e cominciò a camminarci dentro. "Ciao Alvise, come stai?". Alvise si guardò attorno ma non vide nessuno e poi la voce sembrava così vicina, come se provenisse dai cespugli. Rispose "Bene, grazie. E tu?" in maniera educata, com'era nella sua natura e osando una confidenza che sperava non fosse troppo azzardata. "Oh Alvise, come vuoi che vada. Mi hanno messa in questo posto come se mi avessero calata dal cielo: in mezzo sempre e comunque lontana da tutti. La gente mi attraversa distrattamente, senza neppure guardarmi. Nessuno si ferma a fare quattro chiacchiere, come accade sulle strisce pedonali ed ai semafori. E poi hai visto come sono in disordine? Tappeto inglese e cespugli delicati e nessuno che avvia pensato che non basta l'acqua piovana a far rifiorire il verde! C'eri il giorno dell'inaugurazione? Quella si che fu una giornata memorabile! Il Sindaco con la fascia, la Presidentessa del comitato Giardino in Fiore, le pastine e i canapè, i bambini che correvano....ora mi sento tanto sola." Alvise non aveva mai riflettuto sulle altrui solitudini, abituato com'era a coltivare la propria, e pensò che sarebbe stato meno doloroso per entrambi unirle, magari ne poteva venire fuori qualcosa di buono. Il mattino dopo, facendosi aiutare dal Giuseppe e dalla sua apecar, scaricò qualche sacco di terreno buono, del trifoglio resistente e tutti quei cespugli che tanto piacevano alla Maria - il mirto, il rosmarino, la lavanda - e che gli ricordavano il profumo dei suoi capelli. La Rotonda commentava l'andamento dei lavori, ma non quando c'era il Giuseppe, e gli confidò che qualche metro sotto c'era anche una falda di acqua cristallina. L'inverno trascorse conservando e proteggendo le piante messe a dimora e l'estate ritornò improvvisa e spavalda. Venne anche un giornalista a raccontare la storia della rotonda che era stata adottata da un anziano, anche se l'Alvise non si sentiva anziano ed era orgoglioso di essere vecchio, e scattò tante fotografie. In una c'era la Rotonda vestita a festa come il giorno dell'inaugurazione: c'era un angolino con la piccola fontana di pietra lucida scovata nel garage, c'erano i cespugli che profumavano di lavanda e di Maria e c'era la panchina di ferro, vicina alla bicicletta in equilibrio, con seduto un Alvise sorridente. E meno solo. Con il burro salato questa tatin può essere trasformista: servita a fette con un pallina di gelato al latte profumato con un po' di zenzero oppure, se avete voglia di osare, con qualche fetta di foie gras rosolata 2' per lato in una padella antiaderente. Magari la prossima volta mi ricordo di fotografare anche il piatto finito...mi sono distratta pensando all'Alvise e alla sua Rotonda :) Tatin di fichi con burro salato e farina di grano saraceno e di riso Ingredienti (per una tatin da 26-28 cm di diametro)
Per la brisè 100 gr di farina di grano saraceno, 100 gr di farina di riso, 1 tuorlo bio, 80 gr di burro salato, 40 gr di acqua fredda Per la farcia 8-10 fichi neri di media dimensione, 150 gr di zucchero semolato, 50 gr di burro chiarificato. Procedimento In una ciotola (o nella planetaria) impastare le due farine ben mescolate fra di loro, il burro a tocchetti e ed il tuorlo d'uovo aggiungendo, a filo, l'acqua fredda. Ottenere un impasto compatto, dare una forma a panetto, avvolgerlo con pellicola alimentare o inserirlo in sacchetto e abbatterlo o far riposare in frigo per almeno mezz'ora. Nel frattempo tagliare i figli, dopo averli lavati ed asciugati delicatamente, a metà e poi a metà nuovamente. Mettere da parte. Nello stampo da tatin far sciogliere a fuoco dolcissimo lo zucchero fino ad ottenere un caramello ambrato, togliere dal fuoco, unire il burro e scioglierlo completamente mescolando con un cucchiaio di legno. Posizionare le fette di fico a raggiera sul caramello e stendere la pasta brisè gluten-free. Bucherellare con una forchetta e cuocere nel forno statico già caldo a 180° per circa 30'. Sfornare, lasciar raffreddare qualche minuto, capovolgere e lasciar riposare.