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“La vita è un'altra storia” di John Barth

Creato il 23 maggio 2011 da Sulromanzo

“La vita è un'altra storia” di John BarthBasterebbe dire che è questo il libro da cui minimum fax ha tratto l'epigrafe che chiude i 'titoli di coda' dei minimum classics, 'Letteratura, ah: bei tempi, quelli!'. Basterebbe sottolineare, ancora una volta, che quest'uomo è il padre del postmodernismo letterario, cioè di tutto ciò di cui inevitabilmente si discute quando si parla di letteratura oggi. Basterebbe, sì, a mio avviso, ma questo mi impedirebbe di dire quanto sia stato emozionante leggere La vita è un'altra storia, raccolta di racconti scelti da Martina Testa e pubblicata nel 2010.

Breve storia del mio incontro con questo libro (che, vi assicuro, è interessante dal punto di vista
letterario e non è quindi solo un inserto biografico di maniera): nel corso del progetto (in via di realizzazione) di lettura dell'opera omnia di un certo David Foster Wallace sono incappata in Verso l'occidente l'impero dirige il suo corso e, letta la prefazione, da quel giorno più non le[ssi] avante. Martina Testa, infatti, avverte il lettore di quanto più piacevole sia la lettura del racconto lungo di Wallace a partire dalla consapevolezza che si tratta di una riscrittura/prosecuzione/rielaborazione/parte complementare di Lost in the funhouse di John Barth.
Ed è così che il progetto (in via di realizzazione) di lettura eccetera eccetera continua a ramificarsi e a tendere all'ansia enciclopedica e al possesso di un mucchio di altri libri. Perché adesso occorre leggere anche l'opera omnia di John Barth, senza considerare che libri come Giles, ragazzo capra sono praticamente introvabili. Insomma, intanto mi sono messa al sicuro con l'Opera galleggiante (grandioso), e poi sono passata a questa raccolta di racconti, che contiene anche Lost in the Funhouse.

Come per le storie di questo libro, anche la recensione potrebbe prendere svariate direzioni: quella dell'analisi della forma-racconto, che Barth adotta avendo come modelli dichiarati Italo Calvino e J.L. Borges (la mia idea al riguardo è che Barth sia un Borges dubbioso, così come Wallace è un Barth più problematico), oppure si potrebbe analizzare la presenza dei paradossi (citatissimo quello di Zenone, su Achille e la tartaruga, o quello della freccia immobile), o ancora il vero tema predominante, che è quello dello scorrere del tempo e dell'infinita vanità del tutto, o l'accostamento di infinitamente grande e di infinitesimale, e qui ci sembra evidente il debito nei confronti di Calvino (Palomar, personaggio calviniano, è il nome di un osservatorio astronomico: a lui doveva essere affiancato il signor Mohole, nome di un progetto di trivellazione della crosta terrestre. E poi cannocchiale e microscopio sono le lenti dell'uomo del Novecento – e qui consiglio la lettura della
Malattia dell'infinito, di Pietro Citati).
Ancora: gli ultimi tre racconti, tutti tratti da The Development, prendono le mosse dalle vite dei vari abitanti delle case di un complesso residenziale: e qui viene spontaneo pensare a Perec e alla Vita: istruzioni per l'uso, riferimento non peregrino se si pensa ai legami di Calvino con l'OuLiPo, di cui Perec faceva parte.
Insomma, è facile, trattando di questo libro e di Barth, perdersi nella casa stregata della scrittura, della metaletteratura e dei riferimenti intertestuali. Perdersi è piacevole e rassicurante, se il narratore ha ben salde le redini della scrittura e della teoria della letteratura. L'unico problema, appunto, è che l'universo di scrittura in cui ci si perde, felici, è infinito e denso, e ci trattiene tra le pagine e ci invoglia a comprare libri e leggerli e amarli, dimenticando totalmente che la vita è un'altra storia.


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