Fotografia di Davide Simiele
LA VITA IN DISSOLVENZA
“Non occorre aver detto di sì al male
per esserne posseduto. Mentre il bene
prende l’anima solo quando essa è consenziente”.
(Simone Weil)
da “Madre”
La sento, sai la sento la forza che ci plasma
plasmare te nel mio utero
fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua
e tu, grappolo di vita, mora succosa,
aggrappato alla mia carne
fatta falda di sangue per le tue radici. Radice io pure
eppure io albero da frutto, ponte da te edificato
dalla tua voce chimica inturgidita.
In me ti seppellisci, in me sprofondi
e mi faccio pasto, focaccia
per il tuo crescermi negli abiti, nei cromosomi,
per il tuo somigliare a tutti quelli della tua misura.
E tu fai me fuori misura, me donna sempre in fuori uscita,
in spargimento di qua da te,
a prepararti un nome, a scavarti un luogo.
(…)
Ti partorisco in misericordia, nel luogo degli opposti
nel nove difettivo a dirci in perfezione
e tu mi partorisci nel coraggio di vedere più chiaro
sotto la luce radente del mio volerti qui mentre mi congedo
e vado via a passi ritrosi che mi sembrava non finito
il mio compito terreno e invece no, forse è questo il limite
e altro ancora e di più non posso.
(…)
Tu figlio bello e benedetto,
figlio dell’obbedienza alla legge che regola l’umano.
Tu nato al mio principio di vita nuova
al mio transito in un silenzio leggero verso la parola giusta,
tu mia ultima parola, mio tutto è compiuto
perché nessuno ha amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici.
E’ questo il canto che vi lascio, la fede che rammenda lo strappo
perché mai e poi mai sentiate l’abbandono
ma solo e sempre l’abbondanza del dono.
***
“Impossibile pronunciarla
quella parola; ma forse
si poteva farla risuonare”
(Marguerite Duras)
da “Gestazione dell’addio” (a Valentina Cavalli)
Trovarla nella caduta perpendicolare
del sangue la parola giusta
che mi raschi dalla pelle tutto il male,
che mi scavi le ossa e mi faccia cava
per galleggiare almeno in quest’aria
che non riesco più a respirare.
Trovarla negli otto minuti di travaglio
della luce ora che sto come il cielo
dismesso dalle rondini,
la verità dimenticata dall’ombra,
le lenzuola sui davanzali, al mattino,
prostrate in un rigurgito di buio.
Trovarla la parola giusta e difficile
ora che il mondo è tutto e solo visibile,
la parola che è segreto e mistero di te ed io,
quella che dice l’amore
quella che m’è rimasta dentro muta
perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido
campana che suona
tamburo che rimbomba.
Non sanno che non è solo il corpo
che m’ hanno profanato
ma tutta tutta intera la vita
che il corpo ricco di messi e bello lo sentivo
e adesso non è più mio e mi sta addosso
come guerra, come piazza di mercato
dopo un attentato.
Corpo estirpato, corpo incolto,
concesso alla mancanza
e se Dio esiste
in me non sento più il suo alito
e sono polvere
alla polvere già ritornata.
(…)
Al mondo non c’è più un nome per me
un nome il cui peso di consonanti e vocali
sia remo e timone per me e-stremata
gettata lontano, spossata e senza più parole
attraverso cui raggiungermi
da quando le mie grida e il pianto
hanno attraversato senza voce
quelli che mi violavano, mi derubavano,
si spartivano le vesti della mia anima…
Lì ho cominciato a morire
lì è la mia vita ad essersi incagliata
estraneo scorrere senza durata
un fiume fermo s’è fatta
e fermo è il sangue nelle vene.
***
“Sì, pensavo: viviamo
senza futuro. Questa è la cosa strana:
coi nasi schiacciati contro una porta chiusa”
(Virginia Woolf, gennaio 1941)
da “1941″
Ho conosciuto la bellezza
quando è unita alla verità,
ho assistito al loro casto amplesso,
al lampo della loro combustione
abbaglio felice nel cerchio perfetto dell’occhio.
Ho sentito il nostro essere posti tra la meraviglia
e il pericolo, pregni dello stupore
dell’incarnazione, del suo essere peso
sull’intera ossatura della vita, su noi ponti intimoriti
aggrappati a un’unica sponda.
(…)
In ebraico umano ha la stessa radice di incurabile
creature nate con un cuneo di tenebra piantato in petto
con certe ricadute in un dolore senza coraggio,
piccolo da stare tutto sulla punta delle dita
o nella coda mozzata della lucertola
che danza il suo disprezzo al come vanno
le cose nel mondo eppure è lode alla giustizia della natura
che si manifesta nella schiusa delle uova,
nel riverbero che del sole fa una pozza d’acqua
aggiungendo luce a luce mentre in noi la luce muore,
al buio sono le nostre mani senza strumenti
contro l’oscurità del futuro.
(…)
Solo le voci di nuovo, ancora quelle a tormentarmi
a imbavagliarmi le mani con il loro vociare confuso,
ronzio senza sacralità che mi profana la mente
alveare di parole che non si posano, sciamano
in assenza di dèi e dei loro comandi a cui
in un tempo semplice obbedivamo.
Obbedire: udire stando difronte a qualcuno
- l’etimo esatto della scrittura.
Le voci – crepitio di pensieri inadeguati -
mescolate al canto trasparente dell’Ouse
a cui mi unisco perché finalmente sia trasparente anch’io.
Faccio la cosa migliore, l’unica cura possibile
battezzo la mia vita dal rovescio,
lascio che l’azzurro reciti la professione di fede al mondo
al posto mio, affondo con le vele spiegate,
i sassi nelle tasche pegno e viatico
peso necessario per chi si è rinnegato
per l’acqua amnio in cui respirare ancora e di nuovo
lontano da quest’aria che m’annega.
“E’ ora di smettere il monile
d’ambra, di mutare
il lessico, di spegnere
il lampione sulla porta…”
(Marina Cvetaeva, febbraio 1941)
Mi hanno chiamata Marina
ma è la montagna che ho amato
di marino ho avuto il cuore: le sue maree,
le mareggiate, la sua vita di oscuri fondali.
Ero una vetta eppure m’infrangevo sugli altri
- getto d’acqua inesauribile – eppure
roccia solitaria, picco e rupe scoscesa
- io e la mia parola.
Quando l’amore era nido e stella,
quando la poesia sgorgava da tutto il creato
e con questa condanna, con questa forza
credevo di poter controllare qualunque essere vivente,
il vibrare silenzioso delle cose
ma non il ferro no, non il fuoco!
Non questa guerra, questo orrore:
i bambini che muoiono di fame,
le sirene, i battelli sul fiume pieni di feriti
gli sfollati, sfollata io nell’insignificante
coi miei miseri gomitoli di lana francese
i loro inutili colori contro tutto il grigio,
tutta la miseria, il dolore, la morte.
Dov’è? dov’è lo spirito? che venga!
che mi aiuti, mi salvi!
mi renda di nuovo necessaria la vita
e me necessaria a qualcuno!
(…)
Angoscia è la mia sostanza
perché se il lamento non diventa poesia
l’accompagna fisso il pensiero della morte
abito di cui da tempo prendo le misure,
ne ritaglio il modello
sulla forma intransitiva del mio dolore
il senso precipuo del mio non abitare più
il bianco del foglio fatto minaccia e segno
di quanto sia grave non avere terra alcuna,
nessuna terra in cui rimpatriare.
Smarrita la fede la vita è un soliloquio
tra gli schiamazzi della menzogna,
tra gli sproloqui di mentecatti senza riguardo
per chi agonizza sulla soglia,
e la voleva ricca di bellezza, magica
e ubertosa nell’obbedienza della mano all’udito.
(…)
Attonita mi brancola tra le braccia la luce,
il suo seme spento soffoca le promesse
per questo da mesi cerco un gancio,
un corrispondente esterno al gancio
che dentro batte contro le pareti dell’anima
fa del mio corpo una zattera alla deriva
e un approdo questo trave di legno
bruno come le mie mani
scurite dal continuo sbucciare patate
che non me le bacino più!
ormai sono sconsacrate
e con queste mani scrivo la mia morte verticale
creo l’ultimo gesto, il mio volo d’allodola;
offro il collo all’addiaccio della corda
che avvolgo attorno al gancio
m’assicuro sia ben salda, non ceda, non si sciolga
ma mi lanci di là come freccia
attraverso i sette cieli senza bersaglio
lungo la linea dell’eternità.
***
Nessuna infanzia è priva di terrori.
(Philip Roth)
Una grazia unica riposa sull’infanzia,
riposa su ogni bambino.
(Charles Peguy)
da “Aurora/Sara”
L’infanzia è un regno immenso
circondato da giganti minacciosi
con buio e lupi assopiti tra le gambe,
giganti le cui voci franano
sui piccoli esseri che lo abitano
gli picchiettano sulle spalle come sassi.
(…)
L’infanzia è un regno immenso
dove si impartiscono lezioni di volo al vento
dove tutto respira e ha occhi e un’anima
dove è un solo popolo, una sola lingua,
una sola sostanza tra le cose, gli animali e
gli esseri piccoli che lo abitano.
Non ho mai avuto un regno
tutto s’è fatto subito mondo
un mondo verticale
da arrivarci con sforzo, in punta di piedi
dove io sono una cordicella tesa di fibre spaventate
in piena di sgomento.
Solo otto gli anni miei e poco più
compresi i mesi nel ventre di mia madre. Mi voleva, ma poi andava in motorino
ad altri ha raccontato
che è stato un calcio di mio padre
ma questo io non lo so, non lo devo sapere!
A me hanno detto che è stata una buca nell’asfalto
e poi i dolori al ventre.
Appena sei mesi sono stata nel suo utero
rotti gli ormeggi salpata alla deriva
nascevo io soltanto alla mareggiata
lei si ritirava, mi lasciava all’approdo
annegava nel dolore, non si perdonava.
Forse non ce l’avrei fatta le dissero
che ancora mi domando in che modo
quei centimetri, quei grammi minimi che ero
siano riusciti a convincere la morte
a farsi da parte vinta da tanta ostinazione
da tanta fame che ancora non si sazia.
(…)
Mia madre è una stronza
beve e grida alla nonna, a volte la picchia
a me no, a me non mi tocca
ma certe volte maledice il giorno in cui sono nata
e la sua voce mi imprigiona il cuore
che batte batte come un ramo
contro una finestra
e intanto lotta con la tempesta.
Poi quando c’è lui mi manda via,
mi manda a dormire dalla nonna.
Mia nonna poveretta lei mi vuole bene
ma da sola con questa figlia e quell’altra morta
non ce la fa. Mio padre non so dove sia
e ogni giorno un poco me ne va via il ricordo,
l’odore che a volte mi sembra di sentire
non so cos’è che gli impedisce di tornare,
quale incantesimo lo tiene lontano
o se è perché non so essere figlia.
Come non sapevo che gli alberi
e i fiori e l’erba avessero radici sotto
a tenerli attaccati alla terra
e mi chiedevo com’è che non cadessero
che non se li portasse via il vento
come mi chiedo ora com’è che sto in piedi
che non volo via se non sento radici
sotto i miei piedi.
(…)
A scuola le altre bambine
non giocano volentieri con me
il mio grembiule non è bianco come il loro
nei capelli ho nodi che non si sciolgono
e le mie mani inquiete ali
si stringono a frenare voli disobbedienti
a impedire che lo smarrimento
mi ferisca la gola con parole cattive
che mi portano via il raccolto buono
dell’angelo animato dal mio cuore.
“Battezzo la mia vita dal rovescio” di Lucetta Frisa e Marco Ercolani
La vita in dissolvenza, di Lucianna Argentino, è un lungo poema drammatico, suddiviso in quattro poemetti, dove la complessità delle voci guida il lettore dentro una carnalità tutta al femminile. L’identità della donna è scavata con l’espressionistica potenza di una lingua poetica tumultuosa, innodica. Un io plurale, sacro e profano insieme, innerva quattro viaggi diversi che hanno l’appassionata ambizione di tessere la polifonia di un’anima/corpo, tra disperazione e gioia, tra pulsione di vita e pulsione di morte. L’andamento musicale del poema, la sua retorica strutturale, è una discontinua sinuosità narrativa, caratterizzata dall’architettura barocca e avvolgente di ogni singola composizione, nata nello spazio della possibilità che la vita contende alla morte. Scrive Lucianna: «La vita in dissolvenza è dunque un lavoro nato dalla volontà di raccontare, di dare voce a chi voce non ha più, di dare ascolto a chi non può più essere ascoltato e a chi l’ascolto è negato. Ho sempre pensato che la capacità di ascolto sia una delle virtù più importanti in un essere umano e ancor più in un poeta. Ascolto di sé e ascolto dell’altro; spazio vitale e fecondo in cui sboccia l’incontro che è nascita reciproca; spazio della condivisione, dell’apertura che riempie di nuovo e più autentico senso la vita. Spazio della possibilità».
1.
Il primo poemetto, Madre, affronta il tema vita/morte, gestazione e fine. È una “canzone” di vita, una canzone-dialogo tra una madre futura (Rita F., persona reale) e una figlia possibile. La madre è l’attesa della vita che lei genererà: “La sento, sai sento la forza che ci plasma / plasmare te nel mio utero / fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua”. In versi dove si respira un movimento di nascita, di fuoruscita da un grembo, dice alla figlia di essere pronta “a prepararti un nome, a scavarti un luogo”. La figlia le fa da controcanto: “vedevo gli uccelli che decoravano l’armadio / animarsi, prendere vita”.
La tensione del dialogo, diretto e indiretto nella finzione del poema, testimonia il chiuso e l’aperto della ferita, l’eccesso della vita come dono, dolore, passione, in un’accorata invocazione dove i toni prosastici e quelli accesamente lirici si incrociano in accordi, ora bisbigliati e ora urlati, dentro un ritmo arioso (“il sì che nella esse striscia, scorre basso col peso del dubbio, / nella i poi s’innalza, veste le ali e incede verso l’infinito incanto”) che alterna verso lungo e verso breve. La poesia, di una fisica sacralità, non vuole abbandonare le tenerezze del corpo (“Lego il ventre alle onde quiete del lago, al volo alto degli uccelli, / a questo tempo che ha la grazia di un dono, / al nero dei suoi occhi carico di alfabeti” ), le stagioni della natura (“Io fatta terra di parole giovani / io con la scure alla radice, io tralcio in potatura”), la fantasia visionaria (“fingevo fosse un’altra a cui parlavo, / a cui raccontavo lo stupore di essere viva”), l’inevitabilità del dolore (“Nell’ora del mio Getsemani / veglio perché le veglie delle madri fanno le notti assolate”).
Madre e figlia vegliano la loro reciproca nascita, una in presenza dell’altra, e il loro dirsi è un nascere/morire ininterrotto, una metamorfosi in cui ciò che è compiuto ritorna ineluttabilmente a compiersi. La carne della madre in attesa, a colloquio con l’embrione che le abita il grembo, la carne della figlia che sta per nascere o che potrebbe anche non nascere, sono come i personaggi di un’antica scultura lignea, rappresentati da una lingua poetica densa di contrasti.
2.
Il secondo poemetto, Gestazione dell’addio, dedicato a Valentina C., è, al contrario, una “canzone” di morte. Descrive, commenta, evoca con le parole il destino di questa giovane donna, che subisce violenza carnale e dopo sei anni si toglie la vita.
“Perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido”
Versi asciutti, come fotogrammi di uno scempio, traversati da una pietas che non cede alla commozione.
“La nascita è distacco,
la vita un maldestro rammendo
ma questo nuovo strappo
con che lo posso ricucire?
Vita umiliata senza voce alcuna che non sia
questa che dentro mi bastona
Tutto, senza amore, si fa lontano
e invivibile, tutto è guerra
e odora di finitudine”
Il momento poeticamente più alto è il paradossale ripudio del suicidio, nell’attimo della sua esecuzione reale; il desiderio ultimo della donna sofferente, che strappando da sé la vita, invoca il perdono per questo atto.
“E perdòno chiedo pure a questa fune
alle sue fibre vegetali strette strette
legate per legare, ne snaturo l’uso
me ne orno per slegarmi
ne faccio scandalo
e inciampo nella mia fine
ostacolo della vocale all’ignoto
e non c’è riparo a questa riparazione”
Il tono di antica cantica testimonia una voce non riparata più da nulla, esposta a un dolore senza ritorno. Ma l’interruzione della vita è un atto estremo, oscuro, che appartiene comunque alla vita.
“Al mondo non c’è più un luogo per me
spodestata, giorno dopo giorno
spinta un poco più in là
dove non c’è gesto, né strada
che possa ridarmi il viaggio..
[…]Per questo non sono vile
se è da tanto che penso di restituirla
perché non so farmela nuova la vita,
perché non fa più per me né io per lei…[…]
3.
Il terzo poemetto, 1941, inizia con due epigrafi. La prima di Virginia Woolf: Sì, pensavo: viviamo senza futuro. Questa è la cosa strana: coi nasi schiacciati contro una porta chiusa”. La seconda di Marina Cvetaeva: È ora di smettere il monile / d’ambra, di mutare / il lessico, di spegnere / il lampione sulla porta.
Non è un caso che queste frasi siano contigue nella pagina: sono un richiamo preciso per il lettore. La scrittrice inglese e la poetessa russa ci parlano, attraverso la voce dell’autrice, dei loro tragici destini, che si compiono nel medesimo anno, il 1941: la Woolf si annega il 28 marzo, la Cvetaeva si impicca il 31 agosto. In questa fantasia “apocrifa” Marina è la voce di una morte verticale, il corpo appeso a un gancio nella baracca della stazione di Elabuga; Virginia la voce di una morte malinconica, che si chiude nelle infide acque del fiume Ouse, “i sassi nelle tasche pegno e viatico”. Argentino si immagina a ridosso delle loro vite in imminenza di sparizione, “il bianco del foglio fatto minaccia e segno”, identificandosi con “creature nate con un cuneo di tenebra piantato in petto”, riportando sulla scena del poema il loro destino capovolto. “Tutto è perso, è freddo, fame, baule, miseria, / tutto è disordine”. Quando Lucianna scrive: “io che sentivo il peso di ogni parola sulla pelle”, la sua parola echeggia quella di Virginia Woolf come quella di Marina Cvetaeva. Le voci dei poeti hanno la stessa, inattuale, tragica lontananza. “Mi hanno chiamato Marina / ma è la montagna che amo”. Il gancio a cui impiccarsi, i sassi per appesantire la veste, sono strumenti di distruzione ma àncore di salvezza, di liberazione da una vita invivibile: “nel buio sono le nostre mani senza strumenti / contro l’oscurità del futuro”. Il poeta può solo dire “battezzo la mia vita dal rovescio” e riprendere a scrivere ancora.
4.
Il quarto poemetto, Aurora/Sara, che conclude il libro, è il sismogramma di un malessere infantile, il diario angosciante di un io-bambina. È, fra le sezioni del libro, il testo più scopertamente narrativo, sempre aperto (e travolto) da irruzioni, trasalimenti, riflessioni, dove “l’infanzia è un regno immenso / senza fortificazioni senza grammatica”[…] dove s’impartiscono lezioni di volo al vento” ma anche il luogo terribile in cui si aggira una bambina spaventata dal “mondo verticale”, una bambina nata da un parto precoce, che vuole ri-nascere a se stessa “nel giusto tempo”. Rifiuta il nome Sara, imposto dalla famiglia, nome di una zia scomparsa prematuramente (“e poi non mi va di avere il nome di una morta”) e vuole chiamarsi, essere chiamata Aurora. Lo comunica attraverso il “compagno segreto” di una bambola orba che porta sempre con sé, “oggetto transizionale” che, come sottolinea Winnicott, è spazio amoroso dove non è presente né l’io né il mondo ma la relazione, reale e sognata, fra i due. Alla ricerca della “luce buona”, della “luce madre”, Aurora-non-Sara continua a cercare la sua vera vita, tentando di riscattarsi da una famiglia che la confina nell’isolamento psichico, anelando quel riparo che i bambini non hanno: “scovare il rosso tra noi e la creazione / toccarne il nome segreto”. Alla fine Aurora/Sara sembra vincere, almeno per un attimo, la sua lotta per la sopravvivenza.
***
La costante di Una vita in dissolvenza è questa passione fisica/metafisica per il nodo vita/morte nell’esistenza femminile, passione di una materia che “brucia” la forma poetica dall’interno, attraverso quattro monologhi drammatici dove le voci si intrecciano fra di loro o con quella dell’autrice. Tornano alla memoria, per analoga intensità, certe incisioni, in tempo di guerra, di donne e di madri, opera dell’espressionista Kathe Kollwitz, o certi autoritratti della scandinava Helene Schjerfbeck, che dipinge il suo volto dalla prima adolescenza all’estrema vecchiaia, fin quando diventa solo osso, ombra, fantasma.
Per Argentino l’oggetto poetico è la presenza di una carne femminile, ora traversata dal dolore della fine, ora dalla gioia della rinascita, una carne in perenne sussulto. Il ritmo dei testi consente la custodia, fra passione e malinconia, di questo corpo che espone il suo affanno, che grida e si dibatte sempre. La forma lampeggiante e increspata dei singoli poemetti è l’architettura, instabile ma riflessiva, dell’intero libro.
La voce del poeta si riflette nelle parole senza che la forza della lingua cancelli il balenìo dell’intuizione. “Fatte di cosa le parole? / Di quale materia e sostanza? / D’aria, di fiato, di corde vocali, / di lingua contro il palato e i denti. / Leggère eppure potenti”. Il poeta resta uno “sciamano in assenza di dèi”, ma il suo concreto dolore, sia che intoni un’elegia, un compianto funebre, una poesia d’amore, è scandito da una narrazione rituale, che evoca la poematicità mitopoietica dei Quattro poemetti del grande poeta greco Yiannis Ritsos.
Il contrasto tra madre e figlia su vita e morte, il cappio a cui si impiccano Valentina Cavalli e Marina Cvetaeva, le acque in cui sprofonda Virginia Woolf, gli occhi-buchi della bambola cui Aurora/Sara si aggrappa nel tentativo di dare vita al proprio nome, sono, per l’autrice, strumenti drammatici di morte e di rinascita: in sintesi, la presa di possesso, nell’attimo della perdita, di una propria vita e di una propria libertà, attraverso e oltre il dolore che la travolge, attraverso e oltre la consapevolezza della morte. Come Argentino già scriveva in Diario inverso (Manni, 2006): «È fatica attendere, sperare, / vivere strappati da se stessi / stare come vino nuovo in otri vecchie / col timore che il legno ceda / e ci si versi in terra e la terra in noi / e il tempo faccia a meno di noi».
La vita in dissolvenza termina letteralmente con la parola “vita”, appena sussurrata, appesa alla pagina, proprio a fine libro, con pudore. Il dramma poetico si apre a un futuro che tocca solo al lettore immaginare. Una delle ragioni più profonde della poesia è proprio lasciare che il lettore completi il testo scritto e aggiunga il proprio senso alle parole intraviste sul foglio. Parole che, al contrario, devono restare segrete e saper custodire il loro mistero, sempre antico e inattuale, sempre attuale e drammatico: il loro mito vivo, che mescola thanatos e eros nell’epifania reale del dolore e delle sue parole.
M. Ercolani e L.Frisa