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“La vita oscena” di Aldo Nove

Creato il 27 gennaio 2011 da Sulromanzo

“La vita oscena” di Aldo Nove«Il mio unico pensiero era quello di morire il più presto possibile»: potrebbe essere questo un perfetto consuntivo per La vita oscena, romanzo di Aldo Nove (al secolo Antonio Centanin), edito da Einaudi nella collana Stile Libero Big.

Si parta da una considerazione terminologica: l'aggettivo latino obscenus ha almeno due significati; da un lato «osceno, indecente, turpe», dall'altro «di cattivo augurio, funesto». È proprio il dizionario, così, a definire quanto la denominazione del volume sia appropriata.

 

Nove congegna un'autobiografia che allo stesso tempo è atipico romanzo di formazione e scabrosa educazione sentimentale, anche se fuori tempo massimo, accedendo alla forma del romanzo tramite uno stile frammentato, che procede a strappi, giostrando fra periodi tremendamente ipotattici e frasi isolate, quasi versi liberi (si noti l'imitatio, indicata dall'autore stesso, di Io canto il corpo elettrico di Walt Whitman). Come nella tragedia classica, gli eventi funesti avvengono “fuori scena” e, infatti, non è un caso se il testo si apre con la frase: «Mio padre morì all'improvviso, di ictus»; qualcosa è già avvenuto, dunque, e si comincia da subito a fare i conti col dolore. Ma l'evento che crea la silenziosa deflagrazione è la morte della madre, preceduta da un calvario che il protagonista-Nove elabora come un distacco dal mondo relazionale e, per contro, un avvicinamento all'universo dell'inanimato. Per citare, seppur incidentalmente, A.M. Homes, una “sicurezza degli oggetti” che ricolloca l'uomo nell'esistente; così una semplice bottiglia di plastica assume «[…] qualcosa di cristiano, un'imago Christi da poveracci, inconsapevole [...]» e il protagonista non può che sancire, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, l'essere diventato estraneo a se stesso, come lo spettatore di una tetra recita infinita.

 

Il Trauerarbeit è un processo doloroso, lacerante, in cui il protagonista sviluppa una travolgente tensione all'autodistruzione; l'io narrante si cala così, in piena coscienza, in un gorgo fatto di droghe, cocaina, hashish, marijuana, e sesso a pagamento, con un ampio ventaglio di declinazioni: si va dalla dolce ventiduenne alle signore del bdsm, da casalinghe stagionate alla gangbang gay, giù giù fino al punto di non ritorno, in cui la realtà sfuma nell'allucinazione e si consuma una terrificante “ri-generazione”. Le modalità del sesso riempiono la narrazione, progressivamente appiattendosi a puro significante e, in questo modo, si idealizzano, si reificano, per molti versi si “santificano”. A tal proposito, ritornando al nostro dizionario di latino e rimanendo nell'area semantica a cui si faceva riferimento in precedenza, non si trascuri che il sostantivo obscena, -orum, neutro plurale, indica proprio gli organi sessuali. In ultima analisi, apparati di riproduzione, di piacere, ma anche profondi ed efficaci dispositivi di significazione che, dall'antro del loro mistero, delineano coordinate di un'ardua catarsi.

 

La vita oscena è anomalo: se all'inizio può sembrare solo un'operazione commerciale ad hoc, man mano che ci si addentra nell'opera l'empatia cresce; il vagare del protagonista, la sua frequentazione dell'estremo, tenuta comunque presente la matrice autobiografica, ha qualcosa della disperata scientificità di Patrick Bateman in American Psycho, e ricorda più in generale certa letteratura americana contemporanea; Nove, in una discesa vertiginosa nel vuoto, ci consegna un inferno, luccicante d'ebbrezza, seducente e pronto all'uso.


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