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La voglia d’oltremare britannica e quegli attacchi a Papa Francesco

Creato il 26 marzo 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La voglia d’oltremare britannica e quegli attacchi a Papa Francesco

Corone, pennacchi e cannoni: niente male il balcone papale come fondale per riattizzare l’attenzione mondiale sulla innata vocazione imperiale del Regno Unito e sulla sua capacità di proiettare con successo la propria potenza militare, anche ad enormi distanze dalla madrepatria. Le cronache raccontano che Francesco I ha avuto appena il tempo di affacciarsi al balcone di San Pietro per salutare le folle, che subito si è scatenato l’attacco mediatico britannico. Fin dall’alba del day after tutti i tabloid (il Sun, il Daily Mirror e il Daily Mail), ma anche quotidiani più istituzionali come il Telegraph e l’Indipendent hanno ricordato un’omelia pronunciata dal cardinale Bergoglio nell’aprile scorso durante la messa per il trentesimo anniversario del conflitto delle isole Falkland, nella quale l’ex arcivescovo di Buenos Aires disse: «Siamo venuti qui a pregare per i caduti, per quei figli della patria che sono morti per difendere la loro madrepatria, e per reclamare ciò che è loro, cioè la loro patria, che è stata usurpata». La ripetizione delle parole “patria” riferito alle contese isole Falkland (Malvinas per gli argentini) e di “usurpata” è da trent’anni come un urlo assordante nelle orecchie dei britannici. La rivalità storica fra Argentina e Regno Unito è quasi proverbiale, tant’è che la famosa “mano de Dios” di Diego Armando Maradona si calò implacabile (almeno a livello calcistico) proprio sugli odiati inglesi. I quali dal canto loro non mancano occasione per ricordare al mondo che quell’arcipelago nei mari australi è “terra” inglese. A suggello vi è giunto – qualche giorno prima dell’elezione del nuovo papa – il risultato del referendum con il quale gli abitanti delle isole, con una maggioranza del 99,8 per cento (1.514 sì e soltanto 3 no), hanno confermato l’arcipelago territorio britannico di oltremare.

Insomma, se da una parte sulla Gran Bretagna si è abbattuta la scure di Moody’s, con il taglio del rating sui titoli di Stato del Regno Unito (declassati dalla prestigiosa «tripla A» ad Aa1 al pari di quelli francesi), dall’altra parte la terra d’Albione continua ad agire con quella spregiudicatezza che tanto indignò il teologo francese Jacques Bénigne Bossuet da chiamarla “perfida”, espressione che venne largamente utilizzata nel corso dei secoli XVII, XVIII e XIX secolo in Francia per descrivere la storica rivale. “Perfida Albione” appunto. Che altro avrebbero potuto dire gli argentini subendo – è storia anch’essa recente – l’ennesima mortificante stoccata? È accaduto il 18 dicembre scorso, quando il governo inglese ha deciso di regalare alla regina Elisabetta, in onore del suo Giulibeo di Diamante (60 anni di regno), uno spicchio di Antartide. È un territorio grande almeno due volte il Regno Unito; una landa desolata che ora è segnata sulle carte geografiche come Queen Elizabeth Land. Siccome l’Argentina non riconosce la sovranità inglese sul territorio antartico, i rapporti tra i due Paesi si sono ancor più deteriorati.

Infatti, il presidente argentino Cristina Fernandez Kirchner il 3 di gennaio scorso era tornata all’attacco rivendicando le isole Falkland-Malvinas, con una lettera a tutta pagina sul Guardian. Il giorno successivo il quotidiano inglese The Sun aveva replicato con una pagina pubblicitaria sul Buenos Aires Herald, nella quale aveva invitato l’Argentina a «tener giù le mani» dalle isolette. Per togliere ogni ombra di dubbio, il premier Cameron aveva ricordato che le difese inglesi «sono forti e altrettanto è forte la nostra determinazione». Le isole Falkland sono britanniche dal 1833 e sono rimaste tali anche dopo il 1982, l’anno della guerra non di una scaramuccia, sebbene le operazioni militari fossero durate meno di tre mesi. Si conclusero il 14 di giugno con la resa degli argentini. La Gran Bretagna perdette 250 uomini, 6 navi, 9 aerei Harriers, 10 elicotteri che andarono a fondo con la nave che li trasportava e consumò nell’operazione un miliardo e 600 milioni di sterline. L’Argentina perse ottocento uomini, fra i quali 368 marinai dell’incrociatore “General Belgrano” e un considerevole numero di aerei.

Di tutte le guerre combattute dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quella fu probabilmente la più assurda e la più inutile. L’oggetto della contesa è, come detto, il remoto arcipelago delle Falkland–Malvinas al largo delle coste della Patagonia oltre alle ancor più isolate Georgia del Sud e isole Sandwich meridionali, tutti territori d’oltremare britannici rivendicati dal governo di Buenos Aires. Il 19 marzo del 1982, cinquanta argentini sbarcarono sulla Georgia del Sud e vi piantarono la bandiera nazionale. È l’azione che viene indicata dagli storici come la prima offensiva della guerra, e fu per gli argentini la sola che ebbe pieno successo. Le Malvinas furono conquistate in poco più di undici ore con un’unica vittima e cinque feriti. Le isole erano, a quel tempo, abitate da tremila cittadini britannici di origine prevalentemente scozzese, che vivevano di pastorizia, pesca e commercio del legname. Nulla, in linea di principio, avrebbe dovuto impedire un accordo anglo-argentino per l’amministrazione congiunta dell’arcipelago, ma la vera causa della crisi fu la situazione politica a Buenos Aires. L’Argentina era a quel tempo governata da una Giunta militare – retta dal generale Leopoldo Galtieri – che aveva brutalmente eliminato i suoi oppositori e che si era dimostrata incapace di raddrizzare le sorti economiche del Paese e di garantire ai suoi cittadini una decorosa esistenza. Quando l’inflazione balzò al 160 per cento e la disoccupazione e la recessione registrarono aumenti preoccupanti, la Giunta decise che la conquista delle Malvinas avrebbe distratto la pubblica opinione e messo il regime al riparo da eventuali soprassalti rivoluzionari.

All’inizio sembrò tutto facile. I generali, però, non avevano fatto i conti con l’orgoglio britannico e con la tenacia di Margaret Thatcher, primo ministro dal 1979, che in breve tempo mise in piedi un corpo di spedizione composto da sei mila uomini, trenta navi da guerra, sedici navi-appoggio e un consistente sostegno aereo. Racconta la leggenda che non poco contribuì a quella reazione l’intervento di sir Henry Leach, all’epoca Primo Lord del Mare e capo di Stato Maggiore della Royal Navy che, su una esplicita richiesta del Primo Ministro riguardo alla possibilità di riprendersi le isole, disse: «Sì, possiamo riprendercele», e poi aggiunse «e dobbiamo». La Thatcher rispose: «Perché?», e Leach completò: «Perché se non lo facciamo, in pochi mesi vivremo in un Paese diverso la cui parola non conterà più niente». Le operazioni militari si conclusero il 14 giugno 1982 con la disfatta delle forze argentine e con conseguenze politiche che segnarono profondamente ambedue i Paesi. Tra gli inglesi si diffuse un’ondata di patriottismo che, ridando forza ai conservatori suggellò il soprannome di “Lady di ferro” del primo ministro Margaret Thatcher per molti anni ancora. Dall’altra parte dell’oceano, gli argentini cominciarono a chiamare l’Inghilterra “la Perfida Albione”, con quel spregiativo epiteto la paternità del quale è attribuita al teologo francese del Seicento e che Mussolini riesumò facendolo diventare d’uso comune anche da noi. Naturalmente non bastò a voltare pagina.

Nello stesso giorno nel quale fu diffusa la notizia della sconfitta, cominciarono le manifestazioni di protesta a Buenos Aires, a Còrdoba, e nelle altre città più importanti del Paese. Il 18 giugno il generale Galtieri diede le dimissioni, il suo governo era durato appena sei mesi. Prese il suo posto un altro generale, Reynaldo Bignone, e la prima cosa che fece fu di nominarsi presidente a vita. Invece, anche lui ebbe vita breve, perché non riuscendo a sedare le piazze non ebbe altra scelta che indire (1983) le libere elezioni. Reynaldo Bignone fu sconfitto e con lui si dissolse la Junta militare, che nel 1976 era arrivata al potere con un colpo di Stato ai danni di Isabelita Perón, ordito dal generale Jorge Rafael Videla il quale sospese le garanzie costituzionali, dissolse le associazioni politiche e sindacali e fece della “Escuela Superior de Mecánica de la Armada” (ESMA) uno dei centri di detenzione clandestini e di repressione senza precedenti (i desaparecidos, ricordate?). Erano i tempi nei quali in Cile governava il generale Pinochet e le giunte militari occupavano i palazzi di governo di molti paesi del Sud America, tant’è che il continente era denominato “il cortile degli USA”.

Con l’elezione a presidente (ottobre 1983) di Raul Alfonsin, 56 anni, membro della Unión Cívica Radical e schierato su posizioni socialiste, l’Argentina entrò nella democrazia. Durante il suo governo, uno dei più duraturi della storia recente del Paese, molti protagonisti di spicco del regime militare vennero arrestati, processati per crimini contro l’umanità. Tuttavia, Alfonsin, primo presidente liberamente eletto, tentò di governare con un programma improntato alla moderazione, nel tentativo di non surriscaldare troppo la rabbia che gravava sul Paese in quel momento. Ricordo che dai tre mesi di conflitto la popolazione di Buenos Aires ne era uscita stremata. Si tenga a mente che a quei tempi Internet non esisteva, la radio a onde corte era proprietà di pochi eletti, i giornalisti argentini erano minacciati dalla censura, a quelli stranieri era interdetto il fronte. Sicché la propaganda fatta dai giornali e dalla radio controllati dai generali era stata così esaltante e perciò falsa, che la presa di coscienza della sconfitta fu per la gente comune ancora più lacerante delle rivelazioni sulle nefandezze compiute dai generali della Junta.

I morti dell’incrociatore “Belgrano” divennero l’emblema della spietatezza britannica di cui se ne conserva – immutato – il ricordo. Perché fino a oggi non c’è nave che sia mai stata affondata da un sommergibile nucleare in tempo di guerra come accadde col “Belgrano”, sebbene esso navigasse al centro di un piccolo convoglio, molto distante dai 370 chilometri (200 miglia) della “Zona di Interdizione Totale” fissata dai britannici. Tuttavia essi lo classificarono come una minaccia e, prima di aprire il fuoco, il comandante Chris Wreford-Brown volle l’autorizzazione della Royal Navy. Fu lo stesso primo ministro Margaret Thatcher a concedergliela. Alle 15,57 del 2 maggio, il “Conqueror” lanciò tre siluri, due dei quali colpirono il “General Belgrano”. La fotografia con l’incrociatore che cominciava a inabissarsi, circondato da poche scialuppe in bilico sulle onde, fece il giro del mondo. La data e l’ora dell’attacco sono incisi sul “Monumento a los caídos en las Malvinas” assieme ai nomi dei 358 marinai, dei quali si riuscirono a recuperare soltanto pochi corpi.

Ricordo che quando incontrai il presidente Alfonsin (l’avevo conosciuto dopo la caduta di Allende, quando (1973) l’Argentina era governata da Juan Domingo Perón) egli mi concesse un po’ più del suo tempo. Per prima cosa mi disse che quella nave, costruita sul modello dell’incrociatore italiano “Garibaldi”, rappresentava uno scorcio della Storia del paese; questo, a parer suo, spiegava la reazione popolare che poteva sembrare esagerata a chi argentino non è. Poi mi accennò alla difficoltà che avrebbe incontrato per pacificare gli animi così duramente provati dalla guerra e dai tanti anni di repressione dei militari. Mi parlò delle Madres de Plaza de Mayo, delle madri dei desaparecidos (i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare), che ogni giorno, sotto i balconi della Casa Rosada, il Palazzo presidenziale, invocavano giustizia per i figli uccisi. Infine, mi completò il quadro confidandomi che non poteva contare nemmeno sul sostegno della Chiesa, poiché essa s’era troppo compromessa durante il governo dei militari. Tuttavia, il presidente Alfonsin era convinto che nulla, in linea di principio, avrebbe dovuto impedire un accordo anglo-argentino che assicurasse conclusa la guerra un futuro di tranquillità. Ma aggiunse che gli Stati Uniti – o meglio il presidente Ronald Reagan – non s’era affatto mosso per trovare una soluzione definitiva della controversia, benché proprio grazie ad essa si fosse sbarazzato della Junta che era diventata per lui una presenza troppo ingombrante.

Infatti, la Casa Bianca dapprincipio rimase neutrale, anche perché c’erano marcate differenze di vedute tra i vari esponenti dell’amministrazione Reagan. Poi a due settimane dall’inizio del conflitto, sebbene violasse la Dottrina Monroe di cui era il garante, il presidente Ronald Reagan dichiarò al mondo che i generali erano i veri responsabili del fallimento della mediazione e che, pertanto, gli Stati Uniti avrebbero supportato la Gran Bretagna. Il sostegno superò l’immaginabile quando il segretario alla Difesa Casper Weinberger offrì agli inglesi persino l’utilizzo di una loro portaerei. Sicché, a guerra conclusa, sia a Casper Weinberger che al presidente Reagan venne concessa la medaglia di Cavaliere Comandante dell’Impero Britannico, per aver “contribuito alla vittoria”.

Dopo trent’anni di disinteresse per le sorti di un arcipelago che conta tuttora più pecore che abitanti, la stampa inglese ha ricominciato dall’anno scorso a ridargli ampio spazio. Nell’anniversario del trentennale della vittoria vi aveva spedito il cacciatorpediniere Dauntless, che arma un radar avanzatissimo e 48 missili Sea Viper che, secondo una fonte della Marina britannica, «possono distruggere tutto quello che vola». Persino il principe di Galles, duca di Cambridge ed erede al trono d’Inghilterra, William, era atterrato il 2 febbraio nella capitale Port Stanley (Puerto Argentino secondo la denominazione in spagnolo), dopo un volo di diciotto ore dalla base aerea inglese di Brize Norton. Vi trascorrerà sei settimane, con il compito di elicotterista, come spiegò il quotidiano Sun. L’ultimo capitolo l’ha scritto il referendum che si è svolto pochi giorni prima dell’elezione del nuovo papa. Alla domanda «Volete che le Isole Falkland mantengano il loro attuale status politico di territorio oltremare del Regno Unito?», soltanto tre hanno risposto no. L’osservatore internazionale, il signor Juan Henao ha dichiarato che la votazione si è svolta in piena normalità. A questo risultato a dir poco bulgaro molto hanno influito le rassicurazioni della Rockhopper Exploration, compagnia petrolifera britannica, che già l’anno scorso aveva annunciato un investimento di oltre due miliardi di dollari per un progetto di estrazione del greggio al largo delle coste delle Falkland-Malvinas. Siccome dalle prime stime risulta che potrebbero essere pompati 120 mila di barili al giorno, s’è scatenata di nuovo la disputa per il controllo dell’arcipelago.

Infatti, l’anno scorso a Buenos Aires si erano moltiplicate le dimostrazioni anti-britanniche con tanto di bandiere dell’Union Jack date alle fiamme dinnanzi all’ambasciata del Regno Unito. La stessa presidente argentina, Cristina Kirchner, non era andata di certo per il sottile quando aveva dichiarato che «Il Regno Unito è membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma non rispetta una sola delle disposizioni» e aveva aggiunto che «si stanno portando via le nostre risorse petrolifere e ittiche. E quando avranno bisogno di nuove e maggiori risorse, forti come sono, andranno a prendersele dove e come vogliono». A supporto della presidentessa si erano mossi per primi il Brasile, l’Uruguay, il Paraguay annunciando che avrebbero chiusi i propri porti alle navi battenti la bandiera di Puerto Argentino, la capitale delle Falkland. A cascata, si era aggiunto il resto dell’America Latina e dei Caraibi: Venezuela, Nicaragua, Ecuador, Bolivia, Cuba, Repubblica Dominicana, Isole Grenadine, San Vicente, Antigua e Barbuda. Tutti schierati al fianco di Buenos Aires. L’omelia del cardinale Bergoglio s’era inserita in questo contesto. I britannici non se lo sono scordato.


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