Chi non conosce la splendida favola di Esopo intitolata “La volpe e l’uva“? Sono certa che, come me, moltissimi l’abbiano incontrata nel loro percorso scolastico elementare o magari in un bel libro illustrato. Ritrovarmi tra le mani questa favola mi ha fatto fare immediatamente un tuffo nell’infanzia. La cosa curiosa è che il mio bel volumetto in cui si trova, assieme alle altre favole esopiche raccolte da Fedro, se ne stava nascosto in una piccola libreria alquanto fatiscente e disordinata di un viottolo nel centro di Verona, e la sua misera copertina non avrebbe certo attratto la mia attenzione se sotto al titolo “FEDRO. FAVOLE” non avessi scorto la scritta “in veneziano“.
Proprio così: le favole di Fedro in veneziano, tradotte fedelmente da Giuseppe Calò, con tanto di nota su come leggerle rispettando il dialetto e di glossario per facilitare la traduzione.
<La volpe e la ua“.>>
Na volpe morta de fame
la tentava de ciapàr la ua
de un’alta vida,
saltando co’tute’e so fòrse;
no avendo podesto tocarla,
andando via la gà dito:
“No la zé gnancora fata,
no vogio torla
che la zé crua.”
Quei che depressa’e robe
che no i pol far
i gà sto esempio
bon per lori.
Testo latino di Fedro:
Fame coacta vulpes alta in vinea uvam adpetebat, summis saliens viribus. Quam tangere ut non potuit, discedens ait: “Nondum matura es; nolo acerbam sumere.”
Qui, facere quae non possunt, verbis elevant, adscribere hoc debebunt exemplum sibi.
Spinta dalla fame una volpe tentava di cogliere, saltando con tutte le sue forze, l’uva su un’alta pergola. Come si avvide di non poterla raggiungere mentre si allontanava commentò: “Non è ancora matura, non mi va di raccoglierla acerba”. Coloro che svalutano a parole quanto non sono in grado di fare devono applicare a se stessi questo esempio.