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La volta in cui Cesare si inchinò ai piedi del grande Alessandro

Creato il 19 settembre 2013 da Astorbresciani
La volta in cui Cesare si inchinò ai piedi del grande Alessandro Ho sempre ammirato la figura di Alessandro Volta, un uomo la cui grandezza è stata riconosciuta nel nostro Paese con  una certa superficialità. Esistono vie e piazze intitolate a lui in molte città ma paradossalmente troppi italiani ignorano di lui ogni cosa, salvo il fatto che inventò la pila. Non sanno, ad esempio, che Volta scoprì anche il metano e intuì che le patate potevano essere un alimento umano. Prima di lui, erano riservate alle bestie, soprattutto ai maiali. Volta era un galantuomo d’altri tempi, non aveva una P.R. o un ufficio stampa. In ogni caso, se fosse vivo oggi sarebbe meno popolare di Briatore, Vasco Rossi e Beppe Grillo. Ogni tanto, quando passo da Camnago Volta, un sobborgo di Como dove esiste ancora la sua dimora di campagna, la bella villa di Campora, mi fermo al piccolo cimitero dove c’è la sua tomba e gli rendo onore. Spero di avergli reso un onore maggiore dedicandogli il settimo racconto del libro Il cantico del pesce persico. Si intitola Quando Cesare onorò Alessandro e narra i suoi ultimi giorni di vita. Il Cesare del titolo è Napoleone Bonaparte, che Alessandro Volta incontrò a Parigi nel 1801. Il fisico si era recato nella capitale francese per illustrare la sua invenzione davanti ai savants dell’Institut de France. Fu un trionfo per lui e per l’Italia. Uno dei colloqui privati col Primo Console fu quanto meno curioso e lo racconto sciogliendo le briglia dell’immaginazione. Testimonio anche i pensieri, i rimpianti e i rimorsi di un uomo ormai anziano e stanco che attende la morte disteso nel suo letto senza rinunciare però ai voli della mente. 
Ma ecco l’incipit del racconto…
Quel giorno almanaccava con gli occhi socchiusi. I ricordi, che gli facevano compagnia come gli alàri abbracciano il fuoco nel camino, scorrevano nella sua mente in maniera disordinata ed era sempre più arduo attribuire loro date e riferimenti precisi.
Accadeva da qualche tempo. Che fosse un retaggio della vecchiaia? Lo era certamente ma non poteva negare a se stesso che le cose fossero peggiorate da quando aveva accusato un lieve colpo apoplettico. Era successo nell’estate 1823, quattro anni prima. Si trovava in compagnia di sua moglie, nella quiete della sua villa di Campora, e fu provvidenziale non essere solo in quel frangente. A d’un tratto, senza alcun preavviso, aveva avuto come l’impressione che il flusso della corrente elettrica nel suo cervello si fosse interrotto per un guasto. Spaventato, aveva chiesto soccorso, con affanno. Si era accorto che le parole non fluivano facilmente dalla bocca, che non era in sé. Balbettava ed era confuso. Per buona sorte, Teresa non si era persa d’animo. L’intervento del flebotomo era stato tempestivo. Il medico gli aveva aperto la vena e lui si era ripreso.
Da allora, però, la sua decadenza si era fatta più evidente. Nell’ottobre 1826, un attacco d’itterizia, benigna ma ostinata, aveva accelerato la rapida consunzione delle sue forze vitali. Le sue membra erano divenute deboli e cadenti. Negli ultimi quattro mesi, trascorsi nella sua bella casa di Como, in contrada di Porta Nuova, il peggioramento era stato tale da indurlo ai caldi tepori domestici, a oziare sulla poltrona nel suo studio o in salotto, anziché uscire e sfidare i rigori invernali.
Il 18 febbraio aveva compiuto ottantadue anni, un’età in cui è confortante impelagarsi nel groviglio dei ricordi. Quel giorno – era il 27 febbraio 1827 – si mise in testa che ne aveva per poco tempo e tanto valeva concedersi la soddisfazione di assolvere i suoi doveri di buon cristiano, come aveva sempre fatto.
All’improvviso, gli tornò alla memoria la volta in cui aveva incontrato Voltaire a Ginevra. Dopo avere cenato con lui, si era fatto irretire in una conversazione dotta ed eclettica, finché la corrente dei pensieri e delle parole lo aveva condotto nelle sec-che dei temi religiosi. Rammentò, dunque, che il filosofo l’aveva apostrofato con queste parole: «Amico mio, converrete che di tutte le religioni, il cristianesimo è senza dubbio quella che dovrebbe ispirare più tolleranza negli uomini, ma mi pare che fino ad ora i cristiani siano stati i più intolleranti fra gli uomini.»
Punto nel suo orgoglio fideistico, non aveva saputo tacere e dalle sue labbra erano uscite parole gentili ma ferme. «Forse avete ragione voi ma bisogna essere disposti a battersi per difendere la verità rivelata.»
Le solide argomentazioni di François-Marie Arouet, detto Voltaire, non avevano scalfito minimamente le sue certezze. Da allora erano trascorsi molti anni ma lui non aveva mai smesso di professare la fede cattolica col fervore di un discepolo di Cristo. Non si era limitato a confessarsi e andare a messa tutti i giorni e a recitare quotidianamente il santo rosario. Finché ne aveva avuto la possibilità, aveva tenuto lezioni di catechismo ai bambini e agli adulti incolti di San Donnino, la sua parrocchia. Inoltre, incoraggiato dal fratello Luigi, arcidiacono del Duomo di Como, aveva sostenuto la curia locale e i poveri con munifiche offerte e con la sua disponibilità.
Afferrò dunque la campanella e la agitò. Arrivarono insieme, ma da due direzioni diverse, il domestico Attilio e sua moglie, che con garbo gli domandò cosa desiderasse. «Gradite forse una tazza di tè caldo?»
«No, mia cara, ma sappi che ho in animo di uscire domani.»
«Uscire! Il tempo non è clemente. Perché mai volete uscire da casa?»
«Perché domani sarà il Mercoledì delle Ceneri. Voglio andare a messa a San Donnino e desidero ricevere la cenere benedetta sul capo.»
«Non è necessario che prendiate freddo. Chiederò al prevosto Gianati di farci visita e imporvi le ceneri in casa.»
«Non sono infermo, non ancora» replicò l’uomo. «E poi non vorrei che le sue parole – ricordati che sei polvere e polvere ritornerai – avessero il sapore di un malaugurio qualora fossero pronunciate nella mia dimora.»
Teresa accennò una smorfia. Più che il disappunto, emerse in lei la strana curiosità di indagare quando fosse inamovibile la decisione di suo marito, che osservò con disincanto, come se faticasse a riconoscerlo.
In realtà, l’uomo che stava di fronte a lei, seduto su una poltrona e in tenuta da camera, non era diverso da quello che aveva sposato trentatré anni prima e al quale aveva dato tre figli. Era semplicemente più vecchio, molto vecchio. Pur piegato dal peso dell’età, era ancora alto, ben configurato e di nobile portamento. La sua fronte spaziosa era solcata da rughe che denunciavano gli anni trascorsi sui libri e sui banchi, dediti allo studio, l’insegnamento e la sperimentazione. I lineamenti del suo viso dolce e maestoso a un tempo erano ancora belli, virili, privi di asprezza e di quella fierezza che altri avrebbero appeso a se stessi come una medaglia al valore. Nei suoi occhi, appannati dalla senilità, si coglievano ancora i lampi della vivace intelligenza vocata alla riflessione e alla ricerca che aveva guidato i suoi passi nella vita. C’era, in quell’uomo venerando dall’indole mansueta ma non remissiva, umile ma mai servile, liberale e compassionevole, la stessa dignità che ella aveva riconosciuto il giorno stesso in cui l’aveva conosciuto. La stessa nobiltà d’animo.
Era un peccato che un uomo così fosse invecchiato e ora la fissasse con ostinata caparbietà, come se rivendicasse a ragione il diritto di fare le cose alla sua maniera, come in fondo aveva sempre fatto.
«Avete vinto, Alessandro. Domani mattina vi accompagnerò in chiesa» si arrese la nobildonna Maria Teresa Peregrini, consorte del conte Alessandro Volta.(continua)

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