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La7, ovvero De Benedetti Channel

Creato il 11 giugno 2011 da Nicola Mente

La7, ovvero De Benedetti ChannelLa televisione italiana. La televisione e l’Italia, gli italiani e la televisione, la televisione degli italiani. Scatola scura, col tempo pressata a mo’ di sottiletta, madre dell’unità nazionale, centro del potere, voce dal piedistallo, intrattenitrice sorniona, vecchia prostituta dissacratrice o all’occorrenza, austera predicatrice di morale. Scalpello e martello per levigare coscienze, per tracciare percorsi sinuosi su pietra grezza. Una storia legata a doppio filo con l’Evo Repubblicano, dal 3 gennaio 1954 accompagna la crescita di un paese incollato alla meno peggio, incarnando il mastice portatore di omogeneità, in una delle terre più eterogenee del mondo. Ѐ di questi ultimi giorni la notizia della possibile operazione da calciomercato estivo con cui La7 si potrebbe assicurare le prestazioni di alcuni pezzi da novanta dell’antagonismo politico televisivo. Michele Santoro ha divorziato consensualmente dalla Rai del nuovo direttore Lorenza Lei, che ha colto la palla al balzo per liberarsi di un fastidioso fardello, mentre La7 ha deciso di aprire il proprio telegiornale con la notizia di un possibile approdo dell’ex Samarcanda, tra giubili ed esultanze: «Con la nostra emittente le trattative, i rapporti, i discorsi ci sono stati: ora spetta a Santoro prendere la decisione definitiva. Ancora non è stato firmato nessun contratto, ma noi lo accoglieremmo a braccia aperte», queste le parole di Mentana. Un entusiasmo fatto trapelare anche da Lerner, già spalla di Santoro e Telese in qualche convegno sulla tv realtà: «Con Santoro La7 farebbe un passo enorme». La7, ovvero De Benedetti ChannelIn realtà, la manovra della settima rete di Giovanni Stella e di Telecom Italia Media  abbraccia una trattativa più ampia, che riguarda anche altri crociati dell’antiberlusconismo: Fabio Fazio, Travaglio (già da tempo mattatore dei palinsesti del settimo canale), Littizzetto, Vauro. Una trattativa confermata a denti stretti anche da Fazio durante l’ultima puntata di Che Tempo Che Fa: « Ci rivedremo, il dove non è così importante». Poi c’è Saviano (fedele braccio destro di Fazio, anche se l’immagine è un po’ forte), corteggiato da Mentana e papabile nuovo arrivo alla corte del Terzo Polo della Tv italiana. Terzo Polo, già. Parola molto in voga anche in ambito politico, per quanto riguarda il settimo canale: basti pensare alla costante presenza di Casini in questa recente campagna elettorale per le amministrative. In realtà, La7 non è terzo, ma secondo polo effettivo. Prima gli anni della Tv pubblica, poi l’avvento del Cavalier Berlusconi: «Il cliente, il pubblico, è un bambino di undici anni, neppure tanto intelligente» avrebbe dichiarato Silvio negli anni ruggenti della scalata sulle antenne. Una scalata che a forza di spostar sedie e premer bottoni è arrivata ad ottenere l’accorpamento deforme delle tre reti Mediaset con i tre canali Rai, inzuppando le mani nel barattolo di marmellata, quel Cda di Via Mazzini teatro della lottizzazione politica più selvaggia, e vanificando così la logica della guerra vintage “rete pubblica-rete privata” (abbandonata, quest’ultima, alle logiche del Novecento). Giusto per rinverdire i ricordi, si può correre con occhi e testa al 13 gennaio 1992, giorno in cui nacque il primo vero telegiornale della “opposizione televisiva”, quel Tg5 avamposto d’informazione della prima rete commerciale, sotto la direzione di Enrico Mentana. Già, proprio lui. Enrico Mentana. Un uomo avvezzo a incarnare il ruolo del Capitano Achab, oggi come allora. Un ruolo dai contorni ben definiti. E Moby Dick? La balena bianca da combattere? Allora era la Rai, dominio pubblico e politico, ostacolo per il Cavaliere e per le sue ambizioni d’imbonimento sugli undicenni. Oggi però i tempi sono cambiati, e Moby Dick non è più balenottero bacchettone, ma cetaceo dai confini quasi illimitati. Perché oggi, nell’Evo del “pressoché post-berlusconismo”, rete commerciale e rete pubblica si mescolano sapientemente, senza più dare punti di riferimento. Nel giro di un paio d’anni dunque, La rete del duo Telecom-De Benedetti è cresciuta a livelli esponenziali, secondo l’atavica legge non scritta del “bipolarismo stabile”, che impone lo scontro per fissare i piatti della bilancia dei consensi. In effetti, pur includendo De Benedetti come effettivo “patron” del settimo tasto del telecomando, le trame che si nascondono dietro la crescita di La7 sono faccende che ancora di ufficiale hanno poco e niente. Tutto si snoda attorno alla prossima sentenza della Corte d’Appello di Milano sul Lodo Mondadori, che potrebbe fruttare all’ingegnere naturalizzato svizzero oltre 500 milioni di euro, provenienti proprio dalle tasche del Cavaliere di Arcore. Fondi importanti, utili a formare un contenitore che riesca a includere tutti gli esponenti dell’antiberlusconismo militante, accelerando il processo di caduta dell’Impero. La7, ovvero De Benedetti ChannelIl paese sta cambiando, il mondo anche, e gli interessi con esso. Berlusconi sta vivendo la sua discesa che può aumentare velocità da un momento all’altro, regimi dittatoriali stanno cadendo e offrendo al futuro parecchi fogli bianchi da scrivere. In questa realtà La7 ci sta benissimo: moderna, essenziale, seriosa, liberista, antiberlusconiana. E così, nelle ultime settimane, i numeri vicini ai 2 milioni di telespettatori raggiunti da “L’Infedele”, han permesso a Gad Lerner di punzecchiare Vespa: «Via col vento. Così rendiamo anche omaggio alla trasmissione di Vespa che tanto bene ha fatto alla politica italiana». Una lievitazione spasmodica, costruita ad hoc sulla casa di Montecarlo di Fini, sull’affaire “falsa nipote di Mubarak” (chiamata insistentemente “Ruby Rubacuori”, come se tutti risaltassero agli onori delle cronache con il proprio nomignolo usato sul proprio account Facebook), fino alle recenti ed esplosive amministrative. Si passa dal 2,41% di share del gennaio 2010 al 4,06 % del gennaio 2011, per poi crescere continuamente in febbraio (+ 1,53% rispetto al 2010 in prime time), fino a consacrare la corrente stagione come l’annata più florida di sempre per la rete che dieci anni fa, con la gestione di Roberto Colaninno e Lorenzo Pelliccioli (Gruppo Seat Pagine Gialle) si affacciò timidamente sulla scena televisiva italica. Il picco più alto è naturalmente coinciso con la disfatta del centro-destra nella serata post ballottaggio: lo Speciale Elezioni, maratona pomeridiana condotta da Mentana, ha ottenuto una media dell’11,68% di share (1.300.000 telespettatori), e ancor meglio ha fatto il Tg seguente, con uno share di 13,7% (che equivale a circa 3.000.000 di telespettatori). Le picconate son proseguite con Otto e Mezzo di Lilly Gruber, che ha raggiunto il 9,6%, fino alla stoccata finale de L’Infedele (10,7% di share e oltre 2.400.000 telespettatori). Una squadra ben affiatata, che come risultato finale di maggio consegna al canale una media giornaliera dell’ 8,83% con oltre 16.000.000 di contatti spalmati sulle ventiquattro ore. La7 è, insomma, l’alternativa alla “pacchianocrazia” tutta “culi&tette” della Mediaset e al servilismo incatenato e impolverato della Rai. Tutto questo in un paese in cui gli interessi saranno sempre in conflitto, non solo per Berlusconi (si pensi alla Bicamerale e alla decennale ignavia del centro-sinistra sul tema). Una lancia affilata che ripropone l’avvento del nuovo per andare alla conquista del vecchio. Insomma, i cicli della storia: Hegel ne sarebbe contento. Nulla di nuovo. Nulla di nuovo perché siamo di fronte alla nuova frontiera della “lottizzazione”. Non c’è nessuna rivoluzione, almeno per ora. Chiamiamola inversione di tendenza inevitabile, al termine di un ciclo storico – quello di Berlusconi – giunto al naturale collasso. Dunque,  tutti coloro vissuti all’ombra del Cavaliere ora godono di un’onesta rivincita. Con il passare degli anni si è saltato però un passaggio, che è quello squisitamente politico. Decenni fa, dietro la televisione c’era il partito, e dietro il partito i gruppi d’interesse. Oggi l’angolo dedicato al partito è stato fagocitato dal gruppo d’interesse, in un mondo in cui la politica non è più campanilismo collettivo, ma individualismo militante. E così accade che due “gruppi di potere” scendano in battaglia campale e che, a seconda del periodo, ci sia un vincitore morale e materiale. Da qui la naturale esplosione del gruppo avverso (De Benedetti-Telecom) in curiosa concomitanza con la crisi dell’altra parrocchia (processi, debacle elettorali e scandali). Un gioco sapiente, in stile 1984 (Orwell, non Craxi), in cui si necessita di capitani indomiti, alla Achab. Un bastonamento dell’Italia migliore a quella peggiore, il nuovo trionfo della legge del “braccio di ferro” dopo anni di confusione, in cui si faceva terribilmente fatica ad identificarsi con i “buoni”. Perché in fondo, se non c’è un cattivo da dissacrare con insistenza, come si fa a sentirsi buoni?

(Pubblicato su Gli Altri Settimanale* del 10 giugno 2011)

*”Extended version” dell’articolo originale



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