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Laboratorio di narrativa: nuovo racconto

Creato il 11 maggio 2011 da Patrizia Poli @tartina

 

“Domenico” di Marco Claudio Valerio è il lento, rassegnato, percorso di un “invisibile”, uno dei tanti barboni “con le scarpe di corda inzuppate d’acqua” che popolano le strade metropolitane, con lo sguardo perduto verso gli “sfregi e le usure del tempo passato”. Domenico vive la propria condizione di cane sciolto quasi con una sorta di fierezza ed orgoglio e, con divertita ironia, riesce a sorridere e “compatire l’altrui disagio, abituato da tempo a digerire l’indifferenza umana”, lui, come “i neri della Luisiana”, relegato nella casta degli “intoccabili indiani”.

Nel suo tragitto, giunge, quasi inconsapevole, al luogo che è ormai dimora e rifugio di tante anime perse, la stazione ferroviaria. Lì, nei giardini di fianco, “brillanti e freschi” di pioggia, avviene l’incontro: un “libero professionista della propria dimensione” e un essere con “collare e guinzaglio”, l’abito buono e le scarpe nere, pulite, lucide.

E, in quell’incontro improbabile, si consumano gli ultimi momenti: una giacca “di lana fine” abbandonata su una panchina, mentre un corpo penzola da un ramo, ed una “giacca consunta sul pavimento, macchiata sul taschino… con “l’ultima scheggia di vetro di una bottiglia infranta”.

Il racconto è narrato con una visibilità che diventa visionaria, in uno stile che segue il filo di un pensiero concatenato, mai sciolto o affidato alla libera associazione.  Due personaggi sineddoche, dove la parte – le scarpe, la giacca – diventano il tutto.  Ogni cosa è vista dal di fuori. Descritta da un narratore che non è nemmeno onnisciente, è solo un occhio, una cinepresa.  Le persone diventano cose – “le scarpe nere, pulite, lucide, parallele e asciutte” – gesti di diverso spessore e assorbenza d’acqua.

Fondamentali i rumori: della pioggia, delle voci. Magistrale il pezzo dialogato, i toni sono, di volta in volta, rauchi o dolci, come “raspa nuova su legno duro”, come “gesso morbido su lavagna nera.”

Patrizia Poli e Ida Verrei

Domenico

Passi lunghi dinoccolati si susseguono lenti, le scarpe di corda inzuppate d’acqua fanno uno strano rumore ogni qual volta si appiattiscono al pavé del marciapiede. Piove oramai da giorni, il cielo plumbeo non lascia presagire nulla di buono nemmeno per oggi. Non è freddo ma la sgradevole sensazione di bagnato percorre la spina dorsale di Domenico. Vagabondo senza fissa dimora, non apolide inserito nel clan ma libero professionista della propria dimensione, cane sciolto senza guinzaglio o collare, libero, solo, indipendente e inzuppato di pioggia.

Troppa fretta nei passanti per poter solo pensare di elemosinare delle monetine dell’altrui vergogna, per potersi nutrire, così cammina come sempre senza meta prefissata, senza percorso alle spalle. Strano modo di lavarsi i capelli, pensa sornione, togliendosi dal capo il berretto di lana, lo strizza come si fa normalmente per togliere l’acqua in eccesso, una scura chiazza di maleodorante colore si espande nel velo d’acqua che ricopre il selciato, ma lui è già passato, non la vede e non se ne cura, verrà dilavata dalla pioggia così come la sua esistenza è stata dilavata dalla cattiva coscienza della società.

La giacca di lana, almeno un paio di taglie abbondanti rispetto alle scarne spalle dell’uomo ha perso da tempo la sua originaria dignità per acquistare una dimensione avulsa da ogni possibile comune definizione, come un tavolo talmente usurato dal tempo da aver perso le forme dei propri dettagli per acquistare la dimensione della propria storia, ci raccontiamo tutti per come ci usiamo, e poi spesso sul più bello gettiamo nell’immondizia quella parte di vita per poterne iniziare una di nuova, dimenticando gli sfregi e le usure del tempo passato.

Il sordo rumore del tram pneumatico si schiaccia al suolo trasportato da ogni stilla di pioggia, innanzi a lui le porte si aprono, ombrelli si aprono e chi scende si apre a ventaglio evitandolo ed evetandone il contatto, una sorta di strano percorso si apre di fronte alle scarpe di corda che inevitabilmente lo percorrono. Nel tram chiazze d’acqua create dagli ombrelli si mescolano come le esistenze dei passeggeri, ma … non con il piangere lacrime luride dei vestiti di Domenico, lui come i neri della Luisiana deve stare indietro, lontano, momentanea appartenenza alla casta degli intoccabili Indiani, vorrebbe giocarci come un domatore fa con le fiere, ma non gli interessa non lo stimola a sufficienza così appeso al dondolate pomolo si guarda le scarpe e pensa a come potrebbe strizzarle, arriccia le dita dei piedi e un rivolo scuro defluisce dalle consente punte arrotondate.

Un’adolescente lo fissa e si toglie dalle tasche del giubbetto una bustina, ne estrae un fazzoletto umidificato disinfettante e si pulisce le mani in maniera precisa e meticolosa, il cane sciolto sorride, l’adolescente arrossisce e china il capo alla propria vergogna, non è ancora usa a dilavare la propria cattiva coscienza nell’indifferenza. Lui è così esperto a digerirla quell’indifferenza che quasi si stupisce del rossore, ne prova compassione e un pochino di rabbia ma il tutto è come un lampo acceca e scompare.

Ancora il sordo rumore pneumatico delle porte che si aprono su una folla in attesa, lui scende, le scarpe ancora una volta percorrono quel magico sentiero creatosi di fronte a loro, lo splash delle suole sull’acqua del marciapiede, le gocce di pioggia che scendono dal capo alle gote, il secondo risciacquo, pensa. La stazione ferroviaria ha cambiato colore, il marmo inzuppato ora è scuro e rigato, anche i giardini di fianco hanno cambiato colore, ora sono brillanti e freschi, un verde profondo screziato di mille sfumature, beh forse sono solo cento sfumature.

Piove ed è umido, cosa di meglio che un protetto ambiente coperto come le sale di una stazione? La logica preordinata del nostro sentire ci appartiene e in modo vanaglorioso la consideriamo come vera realtà, le scarpe di corda con i loro passi dinoccolati calpestano ora l’erba che pare luccicare come smeraldo, il mutevole scambio tra le suole e il terreno, acqua che passa da una all’altro perché il secondo ha molta più capacità d’assorbire delle prime. La sensazione di momentaneo asciutto è piacevole per i piedi, ma … ancora una volta dura un attimo come il lampo come i sentieri che ci si aprono innanzi se siamo dei “Barboni”.

Sulla panchina sotto l’abete un essere umano con guinzaglio e collare è seduto stropicciando con dita nervose una incolpevole borsa di cuoio nera, morbida a giudicare dalle grinze che la pelle prende alla pressione delle dita. L’uomo con il collare è incurante delle grosse gocce che gli cadono addosso dalle fronde, il vestito nuovo, senza storia da raccontare ne è cosparso qua e là, la stoffa di buona fattura stenta ad assorbirle così gocce come rugiada si mescolano a macchie bagnate, perle che si assorbono lentamente, altre scivolano lungo le cuciture e cado a terra ridotte consumate come il tempo come un tavolo usurato, raccontano ai sassi e alla terra la loro storia.

Un graffio roco squarcia il ticchettare delle lacrime del cielo, “ehi ce l’hai una sigaretta?” le mani nervose si fermano all’improvviso, lisciano la pattina della borsa, scorrono sulla chiusura, le scarpe di pelle nera guardano dal basso, sono perfettamente parallele tra loro, lucide, pulite, asciutte. Dalle fauci della borsa attanagliate da mani curate e asciutte per entrambi i significati, compaiono le sigarette e l’accendino, dita altrettanto ossute si allungano, le unghie nere estraggono il piccolo cilindro bianco, le mani curate si illuminano della fiamma dell’accendino e gli occhi neri e profondi di Domenico brillano per un attimo, come il sapore della prima boccata di fumo, come il lampo come …

Vicino alle scarpe nere, pulite e lucide, parallele e asciutte, quelle di corda si contorcono e si piegano al volere dei piedi che contengono, la pioggia continua a cadere incessante e ritmica come il tempo che passa. Ogni singola goccia racconta la sua storia il suo percorso infrangendosi su ciò su cui cade, la terra assorbe l’acqua delle scarpe di corda e le suole di cuoio ne assorbono una piccola parte, le radici dell’abete assorbono ciò che le gocce di pioggia hanno disciolto dal terreno così come l’erba si nutre in parte della polvere che si era accumulata su questa. I due esseri umani non dividono nulla, rimangono lì a pesare sullo stesso legno della panchina ad assorbire la stessa aria, ma non comunicano, non c’è interesse e nemmeno volontà.

Le dita nervose hanno ripreso a seviziare la borsa di pelle, il mozzicone della sigaretta è stato gettato tra l’erba, la giacca di buona fattura rimane immobile e quella che racconta del proprio tempo si agita, poi si alza e si allontana, Domenico ringrazia con un sordo suono gutturale l’altro non risponde e le scarpe di corda si fermano di fronte a quelle di pelle… dopo aver fatto una semicirconferenza disegnata nell’erba dall’impronta lasciata. il gracchiare roco strappa il silenzio “ ehi me la dai un’altra sigaretta?” questa volta l’uomo seduto alza il volto e con occhi turchini penetranti sorride “ se lo desideri ti posso dare l’intero pacchetto”  “ Cra Cra” voce di corvo che annuisce per poi cogliere l’occasione e soddisfare la naturale curiosità del spere le cose, soprattutto quelle degli altri, e non fa differenza se si ha o meno il guinzaglio ed il collare.

La risposta pacata e dolce non si fa attendere per un solo attimo, richiede una piccola porzione di tempo d’attesa, un racconto non è ancora finito e lo sarà tra breve, solo un piccolo momento di pazienza. Domenico non valuta il tempo come cosa preziosa, per lui stare, andare, aspettare o con una semplice scrollata di spalle girare le sue scarpe di corda e seguire il suo tempo è assolutamente indifferente. Rimane lì fermo le mani sprofondate nelle tasche e la sigaretta appena accesa nei tre quarti della bocca. Indiano metropolitano che fuma il calumet della pace e ascolta il silenzio lasciato dall’urlo dell’orso che difende il suo territorio e comunque consente al suo simile di penetrarlo pur ribadendone la proprietà.

Le gocce di pioggia si susseguono come un metronomo misura il tempo delle note, una legata all’altra, nella bolla di sospensione temporale creata sotto l’abete del giardino della stazione sarebbe potuta aprirsi la cataratta del cielo e così scendere tutte le lacrime da piangere, ma nulla avrebbe cambiato lo stato di sospensione delle dita nervose sulla borsa di pelle né delle scarpe di corda ferme di fronte a quelle di cuoio. Solo la sigaretta si consumava in volute di fumo successive e ridotte. “L’abete mi raccontava di un bimbo che era solito giocare tra i suoi rami …” , “ ehi ma sei cotto?” raspa nuova su legno duro, “ almeno quanto lo sei tu” , miele denso ed opaco, “ allora comprami del vino” gesso morbido su lavagna nera, “preferirei comprarti l’anima” burro spalmato su pane bianco, “ah ah ah sei proprio andato del tutto” nocche scroccate di mani artritiche, “ si un po’ qui e un po’ li” mano su velluto di seta, “allora per il vino come facciamo? Mi dai i soldi o me lo compri tu?” catena di pozzo arrugginita sull’argano, “vieni!” voce di padre al figlio discolo.

La luce del cielo si affievolisce all’incipiente tramonto, i lampioni si accendono come lucciole tremanti, le luci dei negozi si aprano alla strada come gli occhi della fame, larghi e profondi. Le scarpe di cuoio nero si muovono silenziose nella ressa di piedi frettolosi, le scarpe di corda splasshano ad ogni passo, la direzione non è prefissata, pare il gioco di un bimbo a cercare percorsi tra le stelle in una notte cobalto. La giacca di lana extrafine si muove sciolta, il cielo ha smesso di brontolare e piangere, la giacca consunta trascina la sua storia ad ogni dondolio dell’andatura dinoccolata. I due esseri umani continuano a non condividere anche se i loro passi sono conseguenza l’uno dell’altro. Dimensioni talmente diverse dall’essere di fatto parallele anche se con la reciproca certezza che un semplice evento le farà precipitare incrociandole.

Domenico ha la sensazione di continuare a procedere senza una meta, senza guinzaglio, eppure una voce da dentro continua a ripetergli che sta seguendo delle scarpe di cuoio e una borsa di pelle nera. La sensazione di assoluta libertà cozza contro il suo desiderio di poter finalmente ottenere la sua bottiglia di vino, ci annegherà dentro la  perenne sensazione di vuoto e come una cometa nel cielo passa da una stella all’altra senza evidente fissa destinazione, costretta a vagare per cieli sconosciuti e noti senza la minima possibilità di decidere o soffermarsi. Prezzo pagato alla libertà? Conto doloroso presentato dal comune sentire alla sua diversità? Non ha molta importanza tutto annegherà nella bottiglia di vino e nella nebbia dei suoi ragionamenti seguenti.

La giacca di lana fine è consapevole della fredda determinazione di Domenico, i suoi lucidi riflessi sono come lame che affondano nel disordine della storia della giacca consunta. Ogni storia arriva a pesare e equamente essere orgogliosa e vergognosa del suo narrare, meglio soffocare i ricordi lavarli nel nirvana dell’alcol, nella sporca coscienza degli altri con il vessillo della propria libertà. Incredula la cintura di spago sente il fondo della bottiglia di vetro, le mani nodose stringono l’etichetta cangiante, la cravatta di seta sa! I calzoni sfondati non capiscono, gli occhi neri di Domenico non sono stupiti, le sue mani tengono stretta la bottiglia di vino, gli occhi turchini pacati sorridono.

Quale possa essere l’importanza degli eventi e il loro realizzarsi si è consumata nelle gocce di pioggia, la logora giacca e la sua storia si appoggiano allo schienale della panchina, le scarpe di cuoio, inesorabilmente parallele sono di fronte alla logora corda, “ grazie” caramella di frutta che scioglie in bocca, “ grazie a te” rantolo screziato di voce impastata, “ non ci siamo detti nulla e credo vada bene così!” lama affilata e sottile, “per quello che me ne importa certo che và bene così!” scrocchio di legno rotto. La lucida giacca di taglio raffinato si gira, gli occhi turchini guardano il cielo, uno squarcio tra le nuvole fa intravedere uno spicchio di luna, i sassi del sentiero scricchiolano sotto le suole di cuoio e la borsa di pelle nera scompare fagocitata dal buio dei giardini.

Uno sputo a terra, un sorriso sornione, “gente! Puah; la vostra misericordia mi lascia indifferente “ rantolo greve nello spasmo di un crampo allo stomaco. Domenico sente freddo alle spalle e le gambe gli tremano, si distende sulla panchina e guarda le fronde dell’abete, la sua “presunta” anima lo sta lasciando, come fuoco fatuo argentato galleggia in direzione del vuoto dove la borsa di pelle è stata fagocitata dal buio. Il suo corpo prono sulle strisce di legno duro registra con quel che gli rimane del cervello e della sua capacità di connettere, il suo essere bambino ed arrampicarsi sui rami dell’abete … le fronde si muovono al vento come mani ad accarezzare il figliol prodigo ed il suo ritorno.

La luce del mattino lascia intravedere tra le fronde dell’albero grande nei giardini della stazione una giacca di lana fine tagliata da un sarto sapiente  appoggiata al dorso della panchina, un corpo inerme, a cavalcioni di un ramo penzola come una pigna.

Non farà nemmeno notizia … le scarpe di corda ancora inzuppate d’acqua cercano un nuovo percorso, la cintura di corda non stringe più, la giacca consunta ha una macchia sul taschino e l’ultima scheggia di vetro d’una bottiglia infranta… è buio quaggiù !  le nuvole si serrano fitte e per il quarto giorno la pioggia riprende a cadere…

Marco Claudio Valerio


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