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Laboratorio di Narrativa: Paolo Mantioni

Creato il 14 settembre 2011 da Patrizia Poli @tartina

 

“La progressione dei giorni” di Paolo Mantioni ci costringe a una lettura attiva, alla (ri)costruzione della trama, senza mai raggiungere certezze obiettive. L’oggettività della storia – un padre ubriacone che custodisce un tesoro, due giovani macellai che non colgono l’occasione, una madre gretta, un figlio che porterà per sempre il peso di colpe non sue – si ottiene attraverso la soggettività pura e univoca dell’io narrante, con una tecnica che usa un flusso di coscienza ridotto e finalizzato allo sviluppo dell’intreccio.

“Tra lavorare, telefonare, scendere scale, salire metrò, tornare, rimanere… e attendere il passare dei secoli non c’è differenza”. È questa per il protagonista del racconto la progressione dei giorni; è così che memorie del passato e vita quotidiana si mescolano, si confondono,  cozzando contro “quel blocco squadrato cementato dalla vergogna, dalla rabbia, dal dolore…” Un’esistenza grama, una solitudine che affoga nell’alcol, nel vizio antico che è forse espiazione per un lontano peccato non proprio, racchiuso in un inconscio che riemerge, si rivela nell’incontro casuale col passato: Mario e Dario, quasi un doppio alter ego del protagonista, che rivive nella memoria episodi di infanzia e adolescenza, quando lo squallore non è riconoscibile e sfuma nell’ammirazione per finti super-eroi, quando un giuramento strappato si fa dramma irrisolto di un’esistenza che non trova riscatto.

C’è un unico vero protagonista nel racconto, le figure che fanno da sfondo, sono finalizzate a una trama ma vengono percepite piuttosto come simboli, proiezioni della voce narrante; così come i dialoghi, le descrizioni brevi e concise, appaiono come strategia narrativa dell’autore per interrompere i monologhi interiori, che sono poi la parte più letteraria del racconto stesso. La narrazione è spezzata, rifranta, pensata. Le descrizioni sono “ascoltate”, “viste”, “ragionate” come quella, molto bella, dei due fratelli, Mario e Dario:

Li aveva osservati troppo da vicino e non s’era reso conto che anche tra loro c’era qualche differenza: Mario, il maggiore, era il più fragile Perché aveva vissuto un paio d’anni di più, perché s’era assunto l’onere dell’amministrazione, dei rapporti con la banca e con il commercialista, perché aveva una voce più tonda e bassa, perché talvolta cercava di ragionare e argomentare e perché dopo aver parlato per un po’ gli si formava un velo di biascia ai bordi delle labbra. Compromissioni che il minore non aveva bisogno di mostrare perché ne incaricava il fratello: lui poteva rimanere forza, salute e gioventù pure e semplici.”

E ancora l’accenno alla “lampadina nuda” dove nuda, scosciata, oscena è invece la madre, col suo amore debordante, colloso.

La lingua è lineare ma costruita, niente è lasciato al caso, nemmeno l’omonimia fra il personaggio principale e uno dei fratelli - probabilmente proiezioni dell’altro da sé, di una vita, come dice il protagonista “reale e immaginaria”, quella vita nella quale lui avrebbe fatto il gesto di accovacciarsi “sul petto del padre” e non lasciarlo morire nell’indifferenza. E non è casuale neanche lo stravolgimento dei tempi (sia del plot che propriamente linguistici) che obbliga il lettore ad un continuo aggiustamento dei piani.   

Però le citazioni “colte”, e anacronistiche, che precedono e interrompono la narrazione, sono difficilmente decifrabili, appaiono piuttosto artificiose. Non le riportiamo per questioni di spazio.

   Patrizia Poli e Ida Verrei

La progressione dei giorni 

-   Ciao, sto prendendo la metro, tra un’oretta dovrei essere a casa.

-   Com’è andata?

-   Beh, ho girato come una trottola, ma alla fine la giornata dovrei averla tirata fuori.

-   E il resto?

-   Tutto bene, non ti preoccupare.

-   Bravo! Quanti giorni?

-   Dai, fammi attaccare, sono stanco e ho voglia di venire a casa.

-   Anche noi ti vogliamo subito a casa. Quanti giorni?

-   Dai, su…

-   Mi piace sentire la progressione dei giorni. Che ti costa, solo un attimo.

-   Devo recitarti tutta la filastrocca?

-   Sì, mandami in visibilio.

-   Mi chiamo Dario, sono 115 giorni che non bevo…Va bene adesso?

-   Neanche più il colpetto di tosse, che meraviglia! Dai, sbrigati, ti aspettiamo.

Ha telefonato, meccanicamente, dalla stessa cabina delle altre volte; ha cominciato a scendere, altrettanto meccanicamente, i gradini che conducono al sottopassaggio della metropolitana. Come fa ad andare in visibilio per quella ridicola tiritera? Non le aveva detto mille volte quanto fossero tristi le riunioni degli alcolisti? Più si allontanava dalla superficie, più la luce si affievoliva, distingueva appena, in fondo, in basso, il brulichio solito, una specie di formichiere, oscuro, indistinto, estraneo. Oppure le aveva trasmesso senza saperlo e senza volerlo quella voce remota, flebile, coperta, ma non cancellata dalla tristezza e dalla impudicizia, quel senso di pace, o di svuotamento, quella condivisione, o pettegolezzo, che nascono quando si ascoltano i guai altrui, così simili ai propri e così diversi. È solo e triste. Sente vacillare il momento di grazia. È stanco e alla stanchezza fisica non c’è rimedio. Non si può stare tante ore in piedi, entrare in decine di bar, sentirsi sopportato, farsi ascoltare, far di conto per il cliente e per sé, senza che Quello torni a farsi sentire, a fargli pensare che tra lavorare, telefonare, scendere le scale, salire in metro, tornare a casa e rimanere lì, immobile, ad aspettare il passare dei secoli non c’è nessuna differenza.

Non li vedeva da anni. Dubita a lungo che siano loro: Mario e Dario, si spostano di continuo intorno al banco di vendita, indaffarati, incassano, danno resti, allungano braccia per prendere quello che gli chiedono o che mettono sotto il naso dei passanti: fazzoletti di carta, accendini senza marca da bollo, penne, blocchetti, cerotti, braccialetti di cuoio, cianfrusaglie, “mille lire!”, “mille lire, capò, ce dia na mano”. Mario e Dario, invecchiati, di certo, ma ancora riconoscibili, non più solidi e forti come allora, di certo, ma ancora uno poco più alto e più magro dell’altro, più capelluto dell’altro, l’altro con ancora i baffi alla messicana, così fuori moda, ora, incanutiti, entrambi, ingobbito, quello più alto, più lenti e più incerti nei movimenti, meno spavaldo il baffuto, ma ancora riconoscibili, ancora loro, insieme, come una volta. A tirar su la giornata in un corridoio sotterraneo della metropolitana.

Mario e Dario avevano a più riprese attraversato la sua vita, reale e immaginaria e non solo per l’omonimia con il minore dei fratelli. Ogni volta che si era immaginato in un’altra vita, avventurosa, piena di fatti e d’incontri, di progetti realizzati, una vita allegra, serena, contrastata e difficile, una vita che valeva la pena di essere vissuta, si chiamava Mario, come tale si presentava e come tale si fantasticava. Ma non ne aveva fatto mai niente, solo una volta ad una puttana zelante che gli aveva chiesto come si chiamasse, aveva risposto “Mario” e si era sentito un agente sotto copertura.

In realtà, tra Mario e Dario e la sua memoria correva un filo indistruttibile, un nylon da pesca al tonno, fissato ad un blocco squadrato cementato dalla vergogna, dalla rabbia e dal dolore. Un blocco contro cui avevano cozzato i giochi dell’infanzia, i furori e le dolcezze dell’adolescenza, i fatti della maturità, il matrimonio, i figli: le cose di tutti, che anche lui aveva vissute, solo che in lui cozzavano contro quel blocco e rimbalzavano nell’indifferenza, senza scalfirlo.

   Avevano cominciato da garzoni nella bottega di macelleria di fronte casa sua, e in qualche anno di seria e istintiva applicazione ne erano diventati i padroni. Avevano cominciato strofinando con la carta di giornale e lo spirito, fino a farle brillare, le vetrine e i banconi, tutte le mattine, puntuali, sereni, immersi senza riserve nel ruolo. Poi avevano cominciato a tritare la carne, ad affettarla, a prendere una cauta e fiduciosa confidenza con le macchine, gli attrezzi, i coltelli. Sempre in buon ordine: il maggiore apprendeva dal padrone, senza mai farsi ripetere le cose due volte, e Dario da Mario. Non si proponevano, non chiedevano: strofinare le vetrine o tritare la carne sembrava essere l’ultima e la più importante cosa che avrebbero fatto per il resto della vita, così il passo successivo arrivava già maturo, quieto, semplice. S’alzavano la mattina presto, prima dell’alba, e finivano la sera. Poi, ora l’uno, ora l’altro avevano cominciato ad accompagnare il padrone al mercato delle carni, qualche volta a Fondi o in Toscana. Erano ingordi: imparavano mettendo in pratica e mettevano in pratica imparando e le cose fatte bene, il benvolere di tutti, del padrone, della sua famiglia, dei clienti, dei fornitori, li facevano crescere nell’amor proprio e nella convinzione che tutta quella fortuna gli spettasse.

Durante quegli anni, sembrava che la carne che staccavano dalle carcasse degli animali, che tagliavano e che impacchettavano per le sorridenti massaie; le ossa che in parte lasciavano per i cani e in parte per i brodi, tornassero indietro, trasformate, e rafforzassero i loro muscoli e il loro scheletro. Alla bella presenza, alla gioventù, alla stazza fisica, alla solidarietà fraterna, al mestiere che erano destinati a padroneggiare, al perfetto accordo, alla considerazione che li attorniava avevano aggiunto una piccola mania che ne lievitava le qualità: a differenza dei mestieranti, ci tenevano a presentarsi sempre lindi e pinti, sempre sbarbati di fresco, capigliatura sempre in ordine, mani e unghie sempre nettate, grembiuli e zinali sempre bianchi, senza quelle orribili macchie di sangue che di solito imbrattavano gli abiti da lavoro degli altri macellai. Sempre più forti e sicuri del fatto loro, senza arresti, o smentite, o sterzate, avevano avuto anche il pregio di rimanere sempre al di qua della prepotenza o della vanità. E anche quando erano diventati padroni, avevano continuato a sgobbare notte e giorno.

Un connubio e una solidarietà a prova di fidanzate e di mogli, per questo Mario s’era scelta per moglie una donnetta bruttina, piccolina, remissiva, alla quale, in cambio della continuazione della specie dei “Mario e Dario”, aveva fatto dono della sua ascesa economica. 

Lui li aveva visti crescere osservandoli ogni giorno, neanche invidiandoli, tanto erano lontani. E proprio loro che stavano all’altro capo del filo se anche avessero tirato con tutta la loro forza, mai sarebbero riusciti a disincagliare quel blocco che ingombrava la sua coscienza.

Li aveva osservati troppo da vicino e non s’era reso conto che anche tra loro c’era qualche differenza: Mario, il maggiore, era il più fragile. Perché aveva vissuto un paio d’anni di più, perché s’era assunto l’onere dell’amministrazione, dei rapporti con la banca e con il commercialista, perché aveva una voce più tonda e bassa, perché talvolta cercava di ragionare e argomentare e perché dopo aver parlato per un po’ gli si formava un velo di biascia ai bordi delle labbra. Compromissioni che il minore non aveva bisogno di mostrare perché ne incaricava il fratello: lui poteva rimanere forza, salute e gioventù pure e semplici.

Non era convinto di volersi far riconoscere, ma s’era fermato a guardarli, anche perché si era accorto che in tanto affaccendarsi intorno al banco, alle cianfrusaglie e ai passanti, ogni tanto si lanciavano un’occhiata come per dirsi “eh, che dici, niente male, no?”. Senza nessuna malinconia. La malinconia ce la metteva lui, però. L’applicava alle sagome invecchiate, ai movimenti furtivi, alla tolleranza delle guardie giurate, ai rifiuti stizziti dei passanti, al timore per i poliziotti o i carabinieri o per un semplice ispettore dei treni.

Tanto guardare lo colse in fallo. “Ah Dario. Ma nun sei Dario, tu?” “Sì, sono io”. Si strinsero le mani, si beccò qualche pacca sulle spalle, di quelle che un tempo lo avrebbero rintronato e che ora lo immalinconivano ancora di più. “Ma anvedi, aho. E come stai?” “Bene, non mi lamento”. Proprio perché beneducato si rese conto di non trovare il coraggio di replicargli la domanda. Ma quelli manco se ne accorsero, pareva che avessero dimenticato o che addirittura non fossero mai stati Mario e Dario “li mejo macellari”, i giovani spaccamondo, i fornitori di midollo per mogli ricche, belle e viziose. Durante la china erano riusciti a trovare un’uscita laterale, uno spiazzo di riparo, e vi si erano accampati allegri e contenti, come zingari, dei quali ora imitavano i comportamenti con la stessa noncuranza con cui li avrebbero disprezzati. Ma d’altronde che senso aveva opporsi, puntare i piedi, invertire la rotta? E mentre si avviava alla banchina si vide come un personaggio dei cartoni animati seduto in una macchina scoperta il cui motore erano le sue gambe che fuoriescono dal pianale.

Li aveva incontrati spesso al bar del Signor Gino, non lontano da casa sua, dove passava troppe ore dei suoi vent’anni in attesa che le serate della madre diventassero meno astiose per il mediocre voto all’esame di Maturità e il rifiuto di iscriversi a Medicina o da qualsiasi altra parte. Il Signor Gino lo conosceva da ragazzino e non era contento del troppo tempo e delle troppe bevute che consumava lì dentro, ma non poteva opporre di più della progressione di sufficienza, indifferenza, sgarberia.

Mario e Dario ci venivano spesso, soli o assieme, a mostrare più che a raccontare dei loro successi che non erano più solo professionali o economici. Si diceva che fossero entrati in un giro di gente piena di grana, di coppie viziose, di mariti che godevano a far scopare le mogli da ragazzotti forti e dotati. E quella sera ad un crocchio radunato lo stavano confermando. “Sti cornuti!”, provò ad interloquire uno, “macché cornuti, tu sei un povero ignorante e certe cose nun le poi capì”. Però Mario provò lo stesso a spiegarle. “Scusa, eh, invece da fassele scopà de nascosto da quarche autista o da quarcuno che magara fa finta puro d’esse n’amico, e poi quanno vai a vedè c’ha pure quarche malattia, le fanno scopà alla luce der sole, senza scenate, senza litigate, d’amore e d’accordo”. “Insomma, questi ve portano a cena nelli mejo locali, magnate, ridete, scherzate, poi ve portano a casa loro, v’aprono la camera da letto, controllano er certificato medico, «accomodateve» e v’offrono a moje. Ma fateme er piacere”. Volgo ignorante e invidioso. “E nun ve chiedono gnente in cambio?” Mario e Dario, troppo impegnati a godersi l’invidia altrui, non colsero l’allusione maliziosa, “e che ce devono chiede?” “N’è che ve ritrovate co quarche strufolo in mano o tra le chiappe”. Dario saltò su come per scazzottarlo, poi a brutto muso, tenendogli il naso sul naso, “allora n’hai capito gnente, noi je damo er midollo, je damo!”

Sperma, midollo, sangue, cazzo, muscoli, cazzotti: tutto in loro parlava solidità, forza, potenza. Se solo ne avessero avuto voglia, se la sarebbero potuta scopare quella notte stessa, davanti, didietro, in bocca e lui non avrebbe potuto impedirglielo né allora né ora. Uno squarcio della mente gli aveva fatto rivedere la madre seduta, scosciata, illuminata dalla lampadina nuda che pendeva dal soffitto. Per scacciare i cattivi pensieri si alza e barcolla fino al bancone, allunga il bicchiere, “dammene un altro”. Il maschietto del banco guarda il Signor Gino che dalla cassa si stava già avvicinando, “no, Dario, lascia stare, mi pare che per stasera hai già bevuto abbastanza”. Libera il bicchiere dalla stretta, e con quel faccino occhialuto, quasi infantile, non ancora deformato dall’alcol, con la buona educazione che con la sbornia diventava remissività, quasi mormorando per non incattivire il Signor Gino, “tanto vado da un’altra parte”, “fai come vuoi, ma qui no, qui basta”. Uscì per andare incontro al prossimo bar. Quando non poteva più sentirlo, il maschietto fa “va ar Bar…collo”. Il signor Gino lo spintonò disprezzandolo, “ma va al diavolo anche tu!”

Solo dopo essersi seduto e aver visto scorrere i neon alle pareti del tunnel, prestò maggiore attenzione ad un segnale che il cervello gli stava mandando da tempo, una specie di piegatura nei circuiti neuronali che chiedeva di essere spiegata. “La borsa! Ho lasciato la borsa vicino al banco di Mario e Dario!” Si guardò la mano che di solito ne serrava il manico per accertarsene definitivamente. “E adesso che faccio?” Doveva scendere alla prossima fermata, aspettare il treno di ritorno, recuperare la borsa, che i due di certo avevano già aperto delusi dai cataloghi e dal blocco copia commissione, e infine aspettare il prossimo treno. Il tutto per un ritardo di almeno un’ora. Già si era messo in moto, s’era rialzato e appostato vicino alla porta. “Se la richiamo, tardo ancora di più, e oltretutto non riuscirò mai a farmi credere, se non la richiamo «apriti cielo!», quando torno”. Scendeva scale, percorreva corridoi, non correva, ma camminava a passo spedito. Quando gli servivano, aveva inventato bugie più plausibili di aver dimenticato la borsa da due venditori ambulanti che conosceva da quando era ragazzino, “sapessi che storia…”, “e non ci sei andato a fare una bella bevuta!” Era arrivato alla banchina di fronte e aspettava il treno in direzione contraria. Ma che bugia doveva inventare? E perché doveva rimettersi nella condizione di essere in torto, di nascondere qualcosa, di essere un pregiudicato le cui dichiarazioni il giudice deve interpretare al contrario per scoprire la verità. Era una condizione che conosceva bene e nella quale tutto sommato si trovava meglio che in questa: dire la verità sapendo di non essere creduto. Salì sul treno e li raggiunse, “ho dimenticato la borsa. L’avete trovata?” “Che è questa?” “Ah, sì, grazie” “Nun s’eravamo accorti ch’era tua, pensa, sa stavamo pe venne!” Nuove risate, nuove pacche, nuovi “ciao, ciao, stacce bene, piccolé”.

E in ogni caso avrebbe dovuto vivere di peggio. Avrebbe dovuto ripensare che lo stava abbracciando per annusarlo, che lo stava baciando per sentirgli l’alito. Avrebbe dovuto sentire di nuovo che era lì solo per impedirgli di bere.

Perché la filosofia dei libertini, degli uomini di mondo, dei disincantati, dei cinici, dei realisti attecchisse al cervello incolto di Mario e Dario non era stato possibile fargli seguire un regolare corso di studi, sicché si rese necessario un coadiuvante sintetico: la cocaina. In questo modo tacitavano i rimorsi di coscienza o il disprezzo per quelle zoccole e quei cornuti e che però gli fece attraversare la soglia della prepotenza e della vanità. Si sentivano invulnerabili. Così accadde che Mario, una volta tanto da solo, mezzo brillo e mezzo fatto, aveva attaccato un tunisino che aveva avuto il torto di trovarsi nel suo stesso bar. L’aveva insultato prima a parole perché indegno del suo paese, perché era brutto, sporco, nero e non avrebbe mai potuto essere “er mejo macellaro”, né partecipare alle orge di gente granosa; poi voleva passare ai fatti, cacciarlo dalla sua vista, dal bar, dall’Italia. Ma quando s’era avvicinato troppo quello gli aveva piantato un coltello nel costato riducendolo in fin di vita.

Nei pochi mesi che Dario dovette barcamenarsi da solo riuscì a mandare tutto a rotoli: commercio e orge. La cocaina gli aveva bruciato il cervello e neanche la negra con cui s’era accompagnato, forte e solida come il fratello, gli impedì di rotolare verso la derelizione.

Non li aveva più visti.

Erano stati loro più di venticinque anni fa a riportarlo a casa dopo l’ultima sbronza. Appena adolescenti, ma già forti abbastanza da trascinarsi un uomo a spalla dividendosene il peso. I garzoni della macelleria di fronte l’avevano trovato sdraiato a terra, davanti al portone di casa, fradicio d’urina. Alle cinque di mattina avevano citofonato svegliando il piccolo Dario e la madre, erano arrivati davanti alla porta, erano entrati e l’avevano adagiato sulla poltrona del soggiorno, davanti agli occhi frustrati e furenti della moglie. Non era la prima volta che qualcuno lo riportava a casa in quelle condizioni. Per i due il Signor Carlo era solo un simpaticone che aveva alzato un po’ troppo il gomito, per la donna un ubriacone senza nessun rispetto per lei e il figlio. Scivolò dalla poltrona senza svegliarsi, senza riprendere conoscenza, e i due ragazzi volevano rimettercelo, sistemarlo meglio, ma la moglie “lasciatelo stare” quasi gridò, accorgendosi di essere andata sopra le righe, quasi di averli rimproverati, mortificandoli, ma, senza riuscire a scusarsi espressamente, li spingeva verso la porta, “grazie, veramente, ma non abbiamo più bisogno di voi”. Uscirono, forse ridacchiando e dicendosi “ammazza, quant’era incazzata”.

   La Fortuna li aveva sfiorati, sfidandoli ad essere colta, ma loro, adolescenti e imbecilli, non se n’erano accorti, avevano continuato a tirare dritto verso la gioventù e la maturità, verso una brutta storia che non sarebbero stati in grado di riconoscere neanche da vecchi e contro la quale, quindi, non avrebbero potuto puntare i piedi.

   La madre ripassò davanti al corpo inerme dell’ubriacone, che russava emettendo una specie di singulto, lo guardò un momento schifata dal tanfo e dalle macchie d’urina sui pantaloni, si rifiutò mentalmente di spogliarlo e lavarlo, prese per mano il figlio e, assieme, se ne tornarono a letto.

   Un paio d’ore dopo suonò la sveglia per le pulizie nei condomini e per la scuola. Lo ritrovarono lì, press’a poco nella stessa posizione in cui l’avevano lasciato, ma in una torsione del corpo innaturale per qualsiasi essere vivente. Ancora più indurita, non volle piegarsi su di lui, lo scosse con il piede, “svegliati”, ma quello non rispondeva, allora riprovò più volte febbrilmente, quasi lo scalciava urlando. Poi cominciò a farsi strada in lei l’idea che l’ubriacone, il marito e padre snaturato non era più niente. Era morto? Si decise a chinarsi su di lui, vincendo la nausea, tastò il polso, poggiò l’indice e il medio sulla carotide, accostò l’orecchio al centro del petto. Si voltò verso il figlio e gli comunicò silenziosamente la notizia. “Vieni, aiutami”. Gli sfilò una manica del cappotto dandola da reggere al piccolo, lo rotolò per sfilargli l’altra. Quando ebbe il cappotto tra le mani sentì un bozzo, una sporgenza, frugò nella tasca interna e ne estrasse una busta di plastica ripiegata. La srotolò tenendone un manico: era piena di mazzette di banconote da centomila lire. Dimenticò tutto il resto, s’avvicinò al tavolo del soggiorno, svuotò il contenuto della busta, accese la lampadina del soffitto, si lasciò cadere sulla sedia e cominciò a contare.

   Se prima di lei, avessero trovato la busta Mario e Dario, come si sarebbero comportati? A che altezza era, nella loro adolescenza, la linea che separa il Buono dal Cattivo, il Giusto dall’Ingiusto? E sarebbe stata davvero una fortuna trovare quella busta, o sarebbe stata fonte inesauribile di rimorsi se se la fossero tenuta o di rimpianti se l’avessero consegnata alla moglie del Signor Carlo tronfi d’eroismo?

   Il piccolo Dario era rimasto fermo, muoveva solo gli occhi e la testa per seguire i movimenti della madre. Era rimasto a metà strada tra il padre morto e puzzolente e la madre che contava i soldi, seduta, discinta e scarmigliata, illuminata dalla lampadina. Pensò, ma non lo fece, di accovacciarsi sul petto del padre, come diceva di avergli fatto fare quand’era piccolo, quasi neonato. Si voltò di nuovo verso la madre: da lì poteva guardarle le cosce nude, bianche, flaccide che la vestaglia a fiorellini non copriva come tutte le altre volte che l’aveva vista seduta.

   Aveva finito, e come risvegliandosi da un sogno, si asciugò il sudore della fronte passandoci la mano, che aggrappò, poi, ai capelli, “50 milioni…” mormorò. “Vieni qui”, se lo portò al petto, lo strinse con le braccia e con le cosce. Poi lo allontanò tenendolo per le spalle, “non dire mai a nessuno quello che è successo. Promettilo. Anzi, giuralo!” Voleva solo tornare tra il seno, le braccia e le cosce della madre. Lo baciò sulla fronte, lo abbracciò di nuovo. Poi riunì le mazzette, le rimise nella busta e s’alzò per andare a nasconderla in camera da letto. Ci mise un po’ a trovare un nascondiglio adatto, nel frattempo gli parlava dalla camera da letto, “Ah, amore mio, ti farò studiare, diventerai dottore!”

   Per mesi, forse per anni aveva vissuto, e aveva fatto vivere il figlio, nel terrore che qualcuno potesse presentarsi alla porta per reclamare indietro il contenuto della busta.

   Venticinque e passa anni fa. Nessuno di quei diecimila giorni era passato senza che, almeno una volta, non ci avesse ripensato. Ma non era mai riuscito ad avercela con lei. Ce l’aveva con se stesso, si rimproverava di essersi riaddormentato, di non essersi accorto che quell’uomo non russava, ma rantolava, di non aver impedito alla madre di fare quella brutta cosa. E non importava che fosse un bambino di dieci anni, perché lui in quella scena ci si era rivisto a 15, a 25 e ci si vedeva tuttora a 35 anni. Perché a 15, a 25, a 35 anni non era riuscito a venir meno a quel giuramento, non era riuscito e mai sarebbe riuscito a dirlo, non l’aveva detto alla moglie e non l’avrebbe detto ai figli. Per sempre si sarebbe tenuto dentro la vergogna, la rabbia e il dolore. E ce l’aveva con lui, perché s’era fatto trascinare da quei due tori imbecilli, anziché entrare trionfante e dire “vedi, non sono solo un ubriacone buono a nulla. Guarda che c’è qui dentro!”

   Non era diventato dottore, era solo un modesto e stanco rappresentante di dolciumi. E alcolista in via di recupero.

  

“Mi chiamo Mario, non bevo da 1 giorno. Per oggi non vorrei parlare. Preferisco ascoltare”.

 

Paolo Mantioni


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