Avevano visto una vita, sapevano leggere i respiri ed ascoltare i sentimenti, si erano inumiditi di gioie e tristezze ma avevano riso e sorriso. I calzettoni rossi di lana rossa scaldavano quei vecchi piedi e quell’anziano corpo fragile ma roccioso. La camicia linda, bianca, con qualche ricamo davanti, profumava di buono. I capelli, ormai radi e piu’ bianchi che scuri, erano raccolti dietro contribuendo cosi’ ad illuminare ancora di piu’ quel volto amato e da amare, bruciato dal sole ma cosi’ morbido nei lineamenti.
All’ombra di una di quelle colonne nella corte che profumava di pioggia, bestie e fieno, quegli occhi socchiusi stavano ascoltando attenti i rumori del piano di sopra. I passi, i respiri via via piu’ profondi, i dolori, i lamenti.
La lacrima aveva quasi raggiunto la fine del suo viso laddove le rughe sembravano il delta di un fiume. Una musica scorreva nelle sue vene. Note “semplici” che parevano voler riproporre lo sgocciolio dell’acqua che cadeva dal tetto nella corte sul terminare di una pioggia. Scorreva lenta quella musica, a volte lasciando spazio infinito tra una nota e l’altra, come quel respiro al piano di sopra. In pochi minuti, vicino a quella colonna, la sua vita ripasso’ sull’immaginario schermo nelle immagini piu’ belle.
Non immense, maestose, grandiose, solenni, ricche o sfarzose. Solo piu’ belle, modeste, semplici ed a volte povere, ma per questo, proprio per questo, vissute con gioia, amore, sorpresa fanciullesca, tenerezza.
Rivide quella madre che allattava il suo piccolo principe nella stalla come fosse un nuovo presepe. I loro occhi socchiusi. Semplicemente beati quelli del piccolo, immensamente dolci quelli della madre che, con dita incredibilmente delicate, carezzava sfiorandola appena quella pelle cosi’ fragile e candida mentre quelle piccole mani stringevano, a cercare un solido appiglio, quella ciocca di capelli che cadeva quasi ribelle, sul viso della mamma. Riudi’ quella voce appena sussurrata cantare una vecchia ma ogni volta nuova ninna nanna. Rivisse la calma del piccolo addormentato tra quelle braccia protettive.
Quella stessa sensazione provata con la prima neve e i vetri appannati dai quali sbirciare fuori, dopo aver creato -tra un disegno e l’altro, tra una parola inventata e l’altra- un oblo’ con le dita, per vedere quei fiocchi leggeri svolazzare come impazziti nel vento per poi posarsi, silenziosi e lievi, l’uno sull’altro a creare magiche coperte bianche, una calma bianca posata in ogni dove. Ripenso’ cosi’ ai suoi calzerotti di lana rossa che scaldavano quei piccoli piedi e la corsa per accaparrarsi nella stalla il posto piu’ vicino al divisorio con le mucche nelle sere di freddo piu’ intenso. Ricordo’ quelle prime volte sulla neve con il sorriso rassicurante del padre e quel mare di diamanti brillanti sotto quel sole accecante. Riascolto’ le immagini degli alberi e il vocio sommesso della natura.
Quel suono appena sussurrato delle foglie frementi nel leggero refolo di vento. Quello piu’ intenso del temporale e del rotolare dei sassi sul bordo del fiume trascinati da quell‘affascinante scorrere d‘acqua.
Ripenso’ ai campi, con la loro assoluta tranquillita’ ed il lento divenire turbato solo dai partecipanti di quelle scampagnate allegre e festose. Si ritrovo’ in una delle serate di fine primavera quando, malgrado la stanchezza, la voglia di giocare aveva il sopravento. E bastava poco. Nascondino, mosca cieca, bandiera. Tutti insieme in quello spazio. E, fuori dalla casa, nel giardino pubblico, quello scivolo! Sembrava altissimo le prime volte. La paura di quella prima discesa e poi, poco alla volta, i timori che divennero sicurezza sino alla prima dolorosa caduta che incrino’, ma non spezzo’, le sue certezze.
Cosi’ come quando cadde con la bicicletta. Era rossa con la sella lunga e tre strisce (una rossa, una gialla e una blu), ma ci si faceva di quelle corse.. E di quelle cadute! Risenti’, distinguendole una per una, le voci dei suoi compagni all’uscita di scuola quando, nel corridoio, sbirciava per cercare la sua tra le altre madri nell‘atrio e riprovo’ la gioia per quel volto ritrovato, il sorriso per quelle espressioni cosi’ infantili ma intense.
Ripenso’ allo scorrere di quelle giornate estive tra mille giochi di bimbi e, per la festa, a quelle meringhe candide, dolci ed enormi. Si rivide dal fotografo con il costume di Pierrot e quelle vecchie scarpette bianche e azzurre ricevute per Pasqua. Si perse in infantili disegni e, facendosene scudo, creo’ nuovi momenti dai quali scaturi’ una musica mai sentita. Una colonna sonora delicata, quasi troppo tenue per le sue vecchie orecchie e troppo colorata per i suoi occhi stanchi.
Una musica diversa da quella delle feste paesane quando gli uomini piu’ anziani si passavano il bicchiere e quelli piu’ giovani, vestiti della festa, cercavano di incrociare gli sguardi di quelle ragazze controllate a vista dalle madri. I piu’ piccoli avevano liberta’ di movimento. Una immagine colorata e festante ai suoi occhi che man mano con il calar della sera scemava per lasciare spazio alle parole sussurrate alle quali faceva da contraltare l’allegro ma alcolico vociare dei piu’ vecchi.
E si riaffaccio’ alla sua mente il sorriso del nonno, di quel nonno tanto amato, e la dolcezza della nonna in mezzo a quell’aia a chiamare il suo nome. Sembro’ danzare su quelle note. Le sue dita si muovevano a tempo e impercettibili movimenti del viso riflettevano quella magica Sinfonia. Riprovo’ la magia del primo bacio, risenti’ quella carezza -in quella fredda serata nella quale anche le volpi avevano preferito stare rintanate ma i cervi erano usciti in cerca di cibo- e gli occhi si fecero melanconici, anche se per un solo istante.
L’amore, breve ma intenso, ripasso’ davanti ai suoi occhi. Le labbra. Il viso. Il suo corpo e il suo profumo. La gioia, la dolcezza, la delicatezza, la tenerezza, il tepore. L’attesa. La vita. La fiaba. Il sogno. Gli infiniti discorsi fatti solo di sguardi, a volte rubati. Le parole, poche perche’ inutili in quella comunione cosi’ intensa e inframmezzate da sorrisi e a volte di lacrime dense.
Rivide infine quelle immagini vissute pochi attimi prima: quelle gocce di pioggia che, ormai piu’ rade dopo la sfuriata iniziale, finivano nella pozzanghera poco distante dai suoi zoccoli. Sembravano ritmate, incastonate in una collana a distanze diverse come fossero disposte da un musicista sul pentagramma.
La goccia entrava nell’acqua come un sasso lanciato dalla mano di un bimbo e, quasi toccasse il fondo, rimbalzava per poi ricadere piu’ placidamente e spandersi in quel piccolo lago dove i cerchi da piccoli si facevano grandi scontrandosi con quelli provocati dalle altre gocce e creavano minuscole onde. Ad un tratto il suo volto si illumino’ di un sorriso mai visto.
Da sopra, da quella stanza al primo piano si udi’ un vagito, un pianto. Vide, pur non essendoci, una lacrima, la prima. La sua, l’ultima, si fermo’ solo un attimo sulle gote.