di Luigi Baldi*
*dottore di ricerca in Filosofia
Di grande interesse risulta il dibattito suscitato da un intervento del Card. Angelo Scola (“La presunta laicità della politica”), pubblicato su “Repubblica” del 26/2/2012, stralcio di una conferenza tenuta nello stesso giorno nella cattedrale Notre-Dame di Parigi, e dalla lettera di risposta del Prof. Paolo Flores d’Arcais, pubblicata sempre su “Repubblica” il 28/2/2012.
Scola parte dalla constatazione di una crisi comunicativa epocale, dovuta all’incapacità dei diversi codici universali secolarizzati di elaborare una piattaforma di valori comune agli uomini. E’ la sfiducia nella possibilità stessa di una domanda fondata su un logos, quindi, comunicabile e condivisibile da tutti gli uomini, in quanto dotati di ragione. La sfiducia nel logos si traduce inevitabilmente nella difficoltà di comunicare, negando il fondamento della democrazia, come ricerca dialogica del bene comune della polis. Se ogni opinione è vera ne consegue che la verità è un fatto privato: pubblico è solo lo spazio vuoto, il contenitore neutro. La democrazia si risolve, allora, in una procedura di garanzia del “rispetto delle regole” (innanzitutto quella della maggioranza), che implica la neutralità dello spazio pubblico, ovverosia l’azzeramento di qualunque pretesa di cercare il vero e il bene universale.
Per Scola, invece, la politica è «l’ambito in cui tutti i “diversi” debbono avere la possibilità di contribuire responsabilmente al bene comune della comunicazione», in quanto è «veramente pubblico, e perciò sanamente laico, solo quello spazio che scommette sulla libertà dei cittadini, credenti e non credenti, di mettersi nel gioco di una “narrazione reciproca». Flores d’Arcais obbietta che la laicità della polis si misura sull’assenza di ogni «riferimento religioso nello spazio pubblico»;, ovverosia in «quel processo permanente di formazione dell´opinione pubblica e deliberazione istituzionale, che mette capo alla promulgazione di una legge». Il fatto è che per Scola il senso religioso è un fatto pubblico per definizione e si radica in quell’esperienza di apertura trascendentale all’essere, che sta alla base anche della filosofia, dell’arte, della scienza, in una parola dell’uomo. L’uomo come persona è per natura “politico”, aperto alla relazione e alla condivisione con gli altri, quindi alla ricerca in comune del bene della polis. Il pubblico, da questo punto di vista, non è una zona franca rispetto alla realizzazione di questa dinamica umana, ma è, al contrario, proprio il luogo della sua attuazione, del farsi della sua storia: è un pieno, non un vuoto. Laicità, dunque, significa apertura alla ricchezza dell’umano, non chiusura in uno spazio autosufficiente e puro perché “bianco”. Il pubblico è laico nella misura in cui pone le condizioni affinchè l’uomo possa svilupparsi e attuare in pienezza le proprie potenzialità naturali di essere razionale e relazionale.
La religione, quindi, ha una dimensione pubblica perché il senso religioso costituisce storicamente il principio ispiratore della cultura umana in tutte le sue espressioni. Possono esistere stati atei ma non popoli senza una tradizione religiosa. Tenere conto della tradizione religiosa del suo popolo è cosa ben diversa per uno stato da imporre una religione ai cittadini o discriminare in virtù dell’appartenenza religiosa. Non si può obiettare che lo stato deve essere neutro, altrimenti discrimina necessariamente. Una neutralità di tal fatta è solo una finzione, che nasconde semplicemente il tentativo scorretto e surrettizio di sostituire la propria concezione a un’altra concorrente. Ciò che conta è il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana, tra i quali c’è proprio la libertà da coercizioni nella ricerca della verità, cioè la libertà della volontà sulla base del giudizio della coscienza, specialmente in materia religiosa. Flores d’Arcais parte, invece, da una identificazione tra pubblico e privato, in cui il primo si identifica con una sua dimensione fondamentale ma parziale, cioè lo stato. In tale quadro tutti i soggetti diversi dallo stato perdono il carattere di “pubblico” e divengono automaticamente privati, legittimati a esistere per concessione dello stato, ma privati.
Proprio nel Cristianesimo, del resto, è l’origine del concetto di laicità («il mio regno non è di questo mondo», Gv 18, 36). La tentazione di arrivare alla Resurrezione senza passare attraverso la Croce è all’origine di ogni fondamentalismo religioso. L’alterità irriducibile di Dio rispetto al mondo impedisce di confondere il Regno di Dio con qualunque realizzazione umana, per quanto cristiana sia (“Gaudium et Spes” 39). Se Dio è trascendente e creatore, il potere non può essere divinizzato e la politica appartiene all’ambito delle realtà penultime, “cause seconde” (San Tommaso) o “fini infravalenti” (Maritain). Qualunque concezione immanentistica che collochi la causa prima nel mondo, giungendo, perciò, a divinizzarlo, finisce, invece, per assolutizzare e divinizzare anche il potere politico. Ne sono esempi il totalitarismo, vera religione secolare, e lo stesso fondamentalismo religioso, che, al di là dell’apparente rivendicazione anti-moderna del primato di Dio sul “secolo”, assomiglia a una forma molto moderna di politicizzazione del religioso. Il cristiano si muove nell’ambito delle realtà penultime con la capacità di argomentazione fondata sulla propria natura di creatura razionale, consapevole che il senso del penultimo sta nelle realtà ultime. La Chiesa è competente su “come si va in cielo”, non certamente su “come va il cielo”: il fatto è che a volte chi è competente in quest’ultimo ambito pretende, sulla base del suo metodo di argomentazione, di parlare del primo. Essa, quindi, non può tacere quando le questioni tecniche coinvolgono problemi morali e toccano la verità rivelata su Dio e sull’uomo; né si vede perché dovrebbe farlo nel legittimo e “laico” confronto delle idee.
Non sono mancati tra i cristiani in diversi momenti storici cedimenti alla tentazione di scambiare il Regno di Cristo con il potere temporale e ciò può ancora accadere. E’, tuttavia, segno di profonda intolleranza e arroganza pretendere di imporre ai credenti di separare la propria fede dalla vita; sarebbe come pretendere da un ateo di separare il proprio ateismo dall’impegno pubblico. L’uomo non è fatto a moduli o a compartimenti stagni, in modo tale che se ne possa frantumare l’unità di vita, scindendo irrimediabilmente la vita privata da quella pubblica. In un contesto di trasformazioni ed emergenze epocali come il nostro è più che mai indispensabile il contributo di tutte le energie alla soluzione di problemi planetari e inediti. In tale quadro un’idea di separazione tra religione e vita pubblica, che cerchi di chiudere la fede nel privato delle coscienze appare molto limitante. Dalle parole del prof. Flores d’Arcais, invece, risulta con evidenza il timore che il contributo delle religioni alle determinazioni della vita pubblica possa portare all’imposizione di una certa concezione o modello di vita personale e sociale sugli altri. L’equivoco di fondo è dato dalla confusione tra verità e sua imposizione. Il Cristiano, proprio perché sa che il regno di Dio non è di questo mondo e che lo stile di Gesù Cristo non conosce forzature e imposizioni, non può imporre niente a nessuno: quando lo ha fatto e lo fa ha sbagliato e sbaglia, confondendo errore ed errante e dimenticando, altresì, che «omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est»(San Tommaso).
Lo stesso Dottore Angelico, pur non usando i termini “laicità” e “laicismo”, afferma che la legge umana e legge morale naturale non si sovrappongono, per cui la prima non necessariamente proibisce tutto ciò che proibisce la seconda. Essa non può imporre la virtù perché, così facendo, imporrebbe un livello di tensione etica, che molti non sarebbero in grado di sostenere; per questo si limita a vietare soltanto i comportamenti più gravi, che mettono direttamente in pericolo la conservazione della comunità umana (per es. omicidi, furti e simili) (S.Th. I-II, 96, 2). La vera intolleranza sembra essere oggi quella di chi pretende, con le armi spuntate di una ragione cartesiano-spinoziana, di ergersi a giudice inflessibile e inappellabile dei contenuti della rivelazione cristiana, tanto da decretarne l’ostracismo dalla comunità civile. Il prof. Flores d’Arcais sottolinea che mai un credente può utilizzare Dio nel processo di formazione di una legge, per se stessa generale, cioè valida per tutti. Tale affermazione, però, presuppone una concezione della fede forse propria della riforma, certamente del fondamentalismo religioso o del “New Age”, irriducibilmente separata dalla cultura e non “fides quaerens intellectum”, secondo la tradizione cattolica. La fede cristiana è una delle fonti ispiratrici primarie della nostra cultura e questo vale anche per le categorie concettuali di coloro che la contestano: l’idea di laicità che professano, i diritti umani e la libertà di cui parlano, le università in cui molti insegnano, l’assistenza e gli ospedali dove anche loro si curano, i centri storici medioevali, le cattedrali e l’arte che anche loro, si spera, ammirano, la stessa Costituzione italiana vigente (relativamente al contributo, peraltro determinante, dei cattolici) sono tutti prodotti della cultura ispirata da una fede pensata e vissuta, come non può non essere la fede cristiana e che non avremmo se i credenti l’avessero riservata al privato.
Il fatto è che spesso un’argomentazione razionale, se proposta da un credente, ancora più se ecclesiastico, è valutata in modo pregiudizialmente negativo, mentre egli è chiamato, proprio in virtù della propria fede, a “rendere ragione della speranza” (1Pt 3, 15). L’argomentazione, allora, non è e non può essere il “Dio lo vuole” o il “perché sì!”, ma la dignità dell’uomo, creato come imago dei, senza che questo significhi per il credente aver «già messo tra parentesi la sua fede e il suo vissuto religioso, … cioè già esiliato il suo Dio dalla sfera pubblica». E’ la scelta tra un’idea di famiglia come soggetto meritevole di tutela dal punto di vista pubblico, per la sua rilevanza in relazione all’educazione dell’uomo e del cittadino, oppure come soggetto privato, in cui è prioritaria la salvaguardia degli interessi degli individui che la compongono. Si deve intendere per famiglia una “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.), cioè una formazione sociale “originaria”, proprio perchè precedente lo Stato e, perciò, dotata di diritti ad esso preesistenti, come avviene per i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) oppure una qualunque comunità tra persone fondata sul sentimento reciproco e sul desiderio di stare insieme, come soggetto privato che prescinde da ogni distinzione di sesso? E’ l’opzione tra un’idea di uomo come individuo, dotato di diritti e interessi tendenzialmente illimitati perché fondati sulla sua costituzione biologica, in cui il desiderio e la volontà assumono valore normativo e la cui libertà significa assenza di legami e l’idea di uomo come persona, singolo irripetibile e originario, ma naturalmente relazionale e sociale, la cui libertà è responsabilità verso l’altro, mai assoluta ma sempre relativa a un ordine di valori oggettivo, basato sulla dignità della persona umana. E’ la scelta tra il riconoscimento che a partire dal concepimento, con la formazione del corredo genetico, si è in presenza di un essere umano, che va trattato come persona e il primato della volontà individuale e collettiva, che sceglie di determinare convenzionalmente il momento dell’emergere di una vita umana degna di tutela. E’ l’opzione tra disponibilità e indisponibilità della vita umana. E’ di questo che si discute.