Retaggio della cultura atletica greca, che mirava ad evidenziare le manifestazioni più poderose della fisicità umana e sfidarne i limiti al punto da creare a celebrazione di essa le prime gare internazionali, le Olimpiadi (tradizionalmente la prima si data al 776 a.C.), la rappresentazione del corpo teso ha costituito un tema costante nella scultura fino ai giorni nostri, raggiungendo alcune vette in capolavori noti anche ai profani.Tutto inizia con il Discobolo di Mirone (metà del V sec. a.C.), una statua originariamente bronzea che conosciamo solo in copie, la migliore delle quali si trova a Roma, nella sede di Palazzo Massimo del Museo Nazionale Romano. Questo notissimo esemplare raffigura un atleta catturato nell'istante immediatamente precedente il lancio, mentre carica l'energia necessaria ad ottenere il risultato migliore. La composizione è estremaente rigida, al punto che potrebbe essere ascritta in una serie di figure geometriche, a testimoniare il rigore del principio armonico greco. L'attenzione è immediatamente catturata dal disco nella mano destra e dalla tensione delle vene e dei muscoli del braccio, seguendo i quali giungiamo ad ammirare la resa meticolosa del busto e delle costole al di sotto della carne. La figura dell'atleta è in torsione, pronta a girare sulla gamba portante e a percorrere col braccio teso un ampi semicerchio.
L'espressione è priva di emozione, un dato che Cicerone non manca di rilevare quando, nel Brutus, evidenzia la linea evolutiva della scultura e, paragonando Mirone a Policleto, imputa al primo una mancanza di naturalezza («nondum satis ad veritatem adducta», cap. 79) che, tuttavia, non nega alla sua arte manchi la bellezza.
A secoli di distanza, fra il 1623 e il 1624, Gian Lorenzo Bernini realizza il David di Villa Borghese, una fotografia ricca di espressionismo che ha come protagonista l'eroe biblico che proprio grazie alla sua fionda uccide il gigante Golia. Stavolta l'artista non si sofferma sulla tensione del corpo, che, seppur presente, non è evidente quanto quella del Discobolo, ma sulla tensione emotiva, segno della dote di David, vincitore non grazie alla sua forza, ma al suo ingegno e alla sua abilità, che consiste nel mantenere un equilibrio senza il quale non può esservi vittoria. Non si può evitare di rimanere incantati davanti all'abilità del Bernini nel rendere questa emozione: la fronte corrugata, le ciglia aggrottate, le labbra che scompaiono all'interno della bocca e la mascella contratta concentrano nello spazio del solo viso la responsabilità di un'impresa epocale.
È invece follia quella che anima il corpo e lo slancio di Ercole nella rappresentazione che ne dà Antonio Canova fra il 1795 e il 1815, ispirandosi alla tragedia greca: in Ercole e Lica l'eroe non fa propria la compostezza che caratterizzava l'atleta di Mirone, né il senso di responsabilità e di una lotta contro il male incarnata David, ma agisce in preda ad un dolore accecante. Ercole è il preda alla furia scatenata dai veleni corrosivi di cui è intrisa la veste donatagli da Deianira, ingannata da Nesso e, incapace di placarsi, afferra il suo servitore Lica, che gliel'ha portata, pronto a scagliarlo in aria. La veste assassina gli si tende sul busto, aderendo al corpo come nelle Trachinie di Sofocle, mentre la pelliccia del leone nemeo, di cui spesso si fregiava Ercole vincitore, giace a terra, e diventa l'ultimo, disperato appiglio di Lica, che vi affonda le unghie mentre ormai il suo corpo, afferrato per i piedi e per i capelli dal possente eroe, è sospeso a mezz'aria e pronto a volare oltre la chioma del semidio.
ILLO (a Deianira): Lo prese un prurito spasmodico alle ossa:
lo stava consumando come fosse
veleno di una vipera omicida.
Così urlando chiese al misero Lica,
che non aveva parte nel tuo crimine,
per che astuzie gli avesse dato il peplo.
Lica, povero, non sapeva nulla,
disse che era il tuo dono, di te sola,
e che l'ui gliel'aveva consegnato
così come lo aveva avuto. Eracle
lo ascoltò, però poi una convulsione
dolorosa gli si attaccò ai polmoni,
afferrò Lica per una caviglia,
dove si flette, e lo scagliò su un sasso
esposto alle correnti, sopra il mare. (Trach. 765-780, trad. Rodighiero) Il volto di Eracle si nasconde sotto il braccio sinistro inarcato, quasi a celare la follia, vergogna di un eroe fino a quel momento simbolo di valore, coraggio e contrasto alle mostruosità del mondo: assoluto protagonista della tensione torna ad essere il corpo, il poderoso torace dell'eroe, laddove la forza viva che gli ha permesso di uccidere e che ora gli dà i mezzi per togliere la vita a Lica viene a sua volta distrutta dagli inganni del maligno Nesso. E l'espressione davvero protagonista, in questa scena incredibile, è quella, terrorizzata della vittima.
Con Canova assistiamo ad un ritorno in seno alla cultura entro la quale è nata la scultura del lanciatore, e non sarà forse un caso che Eracle rappresentasse per gli antichi Greci il prototipo non solo dell'eroe ma anche dell'atleta (come tale si presenta egli stesso in Alcesti, vv. 1025-1033): il lancio che avrebbe dovuto essere composito in una gara quanto quello del Discobolo di Mirone o concentrato in una lotta contro l'ennesimo mostro come quello del David di Bernini diventa qui espressione di un atto incontrollato e puramente distruttivo, quasi la sanzione di un'impossibilità dell'uomo moderno riflesso in quella scultura di poter agire con la stessa grandezza che agli occhi dei Neoclassici caratterizzava nostalgicamente l'antichità.C.M.




