Alla base del conflitto tra Matteo Renzi e Maurizio Landini c’è un rovesciamento delle parti. Renzi agisce come un sindacalista riformista, punta ai risultati, aumenta i salari di 80 euro, assume derrate di insegnanti, stabilisce nuove norme nel mercato del lavoro per includere il massimo numero possibile di soggetti a tempo indeterminato, si occupa di crisi aziendali e di settore, vanta gli investimenti possibili e i traguardi raggiunti dall’impresa, come la salvezza della Fiat e poi le assunzioni alla Fiat (Fca). Landini agisce come un politico massimalista, dei risultati se ne fotte, le vertenze non le chiude, compromessi non ne fa, predica in tv e in piazza politica pura e ideologia pura, purissima, indossa felpe come Matteo Salvini, euroscetticheggia, vuole la politica industriale, insegue il mito dell’eguaglianza come livellamento e non come eguaglianza di possibilità per tutti, non spende energie nello sforzo di creare con una strategia rivendicativa un blocco sociale per tutelare il salario e il posto di lavoro, valuta referendum, si sgola contro le soluzioni del governo riformista di sinistra, crea e poi agita nemici spettrali come Sergio Marchionne, tuona contro l’evasione fiscale e fa demagogia di vario ordine e grado tra gli applausi.
Una volta era il contrario. Il politico di sinistra, massime quelli di tradizione comunista ma non solo loro, sorvegliava l’ortodossia ideologica e puniva le trasgressioni, badando a tenere a freno i sindacalisti come Giuseppe Di Vittorio, Agostino Novella, Luciano Lama.
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come abbiamo cercato di argomentare, il punto di partenza paradossale di Landini è la politica, con il contorno dell’ideologia, mentre quello del suo competitore Renzi è appunto una coalizione sociale aperta alla politica. Renzi ha già realizzato quello che vuole Landini. Non c’è posto.
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Landini, l’ideologo che ha perso il treno.