
(Dan., Ger., UK, Bel., 240 min., col. e B/N, erotico, drammatico)
"Mea vulva, mea maxima vulva"
Quando il cinema è azzardo, estetica ed evoluzione narrativa, I Cineuforici gongolano. Pertanto, davanti alla nuova fatica di Lars Von Trier, saranno lasciate da parte le inutili polemiche e ci affideremo a quanto visto sullo schermo. A scanso di equivoci, si è vista la prima parte censurata e non la sua versione estesa che sarà presentata alla prossima berlinale.
Joe, dopo essere stata trovata da Seligman priva di sensi in un cortile e portata nella casa di quest’ultimo, racconterà la propria storia: è una ninfomane.
Ogni nuovo film di Von Trier è un tentativo di esplorare nuove frontiere cinematografiche, spiazzando sia lo spettatore sia il critico. In questa pellicola, Von Trier si cimenta in una vera e propria costruzione biblica in cui ogni singolo capitolo del volume funge da mattone importante per un risultato eterogeneo. L’eterogeneità, si sa, è un aspetto poco apprezzato al cinema e qui è reso fondamentale.
Il prologoSe si dovesse iniziare dal prologo, ad esempio, si potrebbero notare alcuni aspetti “eterogenei”, che contrastano fra loro e che fanno fatica ad amalgamarsi in un unicum filmico. Insomma, dopo il magistrale prologo wagneriano di Melancholia, il regista danese si ripete con Nymphomaniac. Schermo nero, per lunghissimi secondi, il rumore di sottofondo, via via più intenso, dell’acqua piovana che cade e che scorre lungo le tegole, i metalli, il legno e la strada. Lo spettatore si estranea ed è costretto a chiedersi, dopo gli interminabili secondi d’oscurità, se si tratta di un errore del proiezionista che ha lasciato la banda audio in balia di se stessa. Il tutto è, però, voluto e, il buon regista, non vuole “farci entrare” nel suo film tramite la consueta immedesimazione, ma con quel distacco necessario che si ha davanti a un pezzo di saggistica. Battendo il ferro quando è ancora caldo, Von Trier non si limita a “non farci entrare” nel film, ma associa a un momento drammatico (il ritrovamento di Joe da parte di Seligman) una colonna sonora alquanto contrapposta: Rammstein, Führe Micht.

Il contenutoL’accusa di didascalismo deve essere rispedita al mittente. L’opera di Von Trier è da un lato un saggio filosofico visivo sulle varie declinazioni dell’amore, un messaggio alla solitudine della protagonista (dolorosissima verità) e non un semplice elenco della spesa. È la struttura della pellicola a suscitare questa impressione (quasi a voler cancellare una parte degli spettatori) e non il suo contenuto. Molteplici le letture, innumerevoli gli indizi a episodi autobiografici, multiforme l’analisi sociale, filosofica, estetica, artistica, letteraria, poetica, religiosa, umana che Von Trier dà dell’amore. Talmente vasto lo scibile qui affrontato, da risultare insufficiente un’analisi totale dei suoi contenuti.

L’esteticaParagrafo a parte, per uno dei maestri dell’estetica cinematografica. Se dell’estetica del prologo si è già parlato, il resto necessita ancora di essere elogiato. Frammenti di Melancholia trafiggono il costato dell’ultima e poliedrica fatica del regista danese. Immagini statiche del cortile in cui Joe è sdraiata e priva di sensi, mentre una leggera neve incomincia a scendere, non possono non far ricordare i momenti di silenzio prima dell’apocalisse del penultimo film di Von Trier. Così come l’orgasmo involuto della piccola Joe, mostrato allo schermo come una levitazione o il momento in cui Joe trova il suo albero-anima.


La fine o l’apologia di SeligmanSeligman, che si è professato come un asessuato, ha ascoltato, commentato e aiutato Joe e, come confidente, ha ottenuto fiducia e sincerità da quest’ultima. È l’innocenza del bambino, poiché ancora vergine, ottimo destinatario per la storia di Joe. Può finalmente riposarsi Joe, dopo che ha raccontato la sua ninfomania? No, non esiste il lieto fine mainstream per Von Trier: l’uomo nei suoi bisogni istintivi rimane sempre legato alla natura, ossia sopravvivenza e riproduzione. Scacco alla società.
Mattia Giannone