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Tali suggerimenti, asciugati, come detto, di ogni possibile accessorio dialogico superfluo, oscillano “fra le righe” di confessioni appena appena accennate (non c’è nessun padre per Anahí dice Jacinta, e ugualmente Rubén patisce per una condizione paterna difficile) o più semplicemente nel lasciare alla scena cablata sul gesto, sull’espressione, sul sorriso, il compito di significazione. Senza ombra di dubbio la riuscita di suddette sequenze, e nel globale della sensazione di benevolenza che Las Acacias suscita, non si sarebbero mai concretizzate senza la presenza della piccola Anahí che è il baricentro emotivo di tutto il film. Questa bambolina dai grandi occhioni non solo risveglia in Rubén quella voglia di essere padre assopita nel cassettino del cruscotto, ma in particolare ne scalfisce l’armatura rivelando squarci che reclamano un calore ben più affettuoso di quello garantito dal mate, bevanda sudamericana simile al nostro tè. L’instaurazione di questo rapporto genitore-figlia e il conseguente sviluppo vive di momenti irrorati da una tenerezza che per merito della pargoletta si avvertono spontanei, senza artificio, e riescono ad ingemmare un film che concentrandosi su un unico argomento e scegliendo di non dare respiro alle riprese, è privo di aperture contenutistiche: la strada percorsa, oltre a quella che collega il Paraguay con l’Argentina, è la strada dritta e sicura del sentimento latente, non ci sono scorciatoie o ulteriori diramazioni.
Il fatto che la famiglia sia il cuore della pellicola ha radici autobiografiche poiché Giorgelli, come afferma in questa intervista (link), ha pensato al film dopo un bruttissimo periodo: padre ammalato, crisi economica argentina, perdita del proprio lavoro e divorzio dalla moglie, tutti elementi bene o male riversati in questa vicenda scritta insieme a Salvador Roselli, autore della sceneggiatura di Liverpool (2008). Presentato al Festival di Cannes 2011 e vincitore della Camera d’Or, premio assegnato al miglior debutto cinematografico.
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