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Lascia che io sia

Creato il 02 agosto 2014 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

Annunziata spense l’aspirapolvere e corse a rispondere al telefono.

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“Amore, come ti chiami?”
“Zitta, troia”
“Ho capito, sei un monello”

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Ed erano seguiti 13 minuti di conversazione. Solite cose, baggianate e quisquiglie, scempiaggini e falsità. Nunzia, al secolo Annunziata, in arte Naomi, aveva soddisfatto tutte le voglie di quello che si era qualificato come il toro. Gli aveva detto di avere una quinta di seno, gambe lunghe, culo sodo e labbra carnose. Aveva descritto il suo abbigliamento con dovizia di particolari: dal reggiseno in pizzo fino alle autoreggenti nere, passando per il perizoma che lui le aveva chiesto di avvicinare alla cornetta telefonica. Il toro però era di gusti difficili, aveva infatti preteso di poterla chiamare mamma, l’aveva riempita di parolacce e improperi e, subito dopo un ululato da orgasmo, si era sciolto in lacrime e lei, mamma-Naomi, aveva dovuto rassicurarlo che no, non era cattivo e che sì, lei gli voleva bene. Quelli così erano una manna. Non si doveva scervellare per raccontare chissà che fantasie, doveva limitarsi ad ascoltarli e le conversazioni poi erano sempre piuttosto lunghe. Il toro poi l’aveva ringraziata di cuore e si era congedato educatamente. Nunzia allora aveva riacceso l’aspirapolvere. Dopo aver eliminato ogni granello di polvere dal suo piccolo salotto era esausta, il sudore le grondava come se le avessero sistemato delle piccole fontanelle zampillanti lungo tutto il corpo. Si stancava facilmente, questo è vero, ma cosa si poteva pretendere da una donna di 150 kg? Si era appena accomodata sul suo divano in similpelle, color lavanda, che un altro apparecchio prese a richiamarla col suo trillo. E già, Nunzia non era solo Naomi, ma anche Carla, transessuale ipodotato che rispondeva dalla seconda linea e Fatima, veggente e chiromante dal cellulare.

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“Amore ciao, come ti chiami”
“Eh ciao Carla, dimmi quanto è grosso”

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A onor del vero c’aveva messo parecchio ad abituarsi a quel lavoro, ma aveva ben poche altre possibilità. Glielo aveva detto oppure no sua madre che una laurea in filosofia non le sarebbe servita a nulla? E poi, ma dai, si era pure messa in testa di voler fare la giornalista, ma siamo seri, lei, una grassona. E Nunzia, in barba a tutti i luoghi comuni, era pure una donna piuttosto incline alla tristezza e alla malinconia. Però quel lavoro, trovato per caso in rete, a parte un po’ di disgusto iniziale, le aveva spalancato molte prospettive. Innanzitutto poteva lavorare da casa, senza autobus, macchine, traffico o vita da affrontare. Inoltre poi, sorvolando sulla parte in cui doveva simulare gemiti e pratiche indecenti, poteva immaginarsi ogni giorno diversa. Lunedì era bionda con gli occhi azzurri e la pelle candida, martedì era una rossa tutto pepe dalle lentiggini maliziose, il mercoledì una panterona dai capelli corvini e il fascino dell’animale selvatico. E così via. Poteva persino fingere di essere Donato, ragazzo brasiliano fuggito in Italia per poter vivere liberamente la sua transessualità, lontano dai parenti cattolicissimi e bigotti, dove aveva deciso di chiamarsi Carla. Non che agli interlocutori importasse molto delle storie che tesseva nella sua testa, e se qualche volta, in passato, aveva provato a condividere con quelli la sua fervida immaginazione, aveva dovuto tacere di fronte ad un

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“Ahò ma che me frega a me de tu madre e de tu padre a San Paolo, io voglio sapè si ce l’hai lungo”

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La vita della giunonica Nunzia, trentenne che dimostrava giusto una decina d’anni in più, si svolgeva tutta fra le pareti del suo appartamentino finemente arredato. L’Ulisse di Joyce in bella mostra sul tavolino del salotto, con tanto di segnalibro strategicamente infilato intorno alle ultime cento pagine, una riproduzione d’un quadro di Escher nel salotto, mobili in stile bohémien sistemati con finta noncuranza e falso disordine. Altri orpelli qui e lì facevano di lei la perfetta intellettuale. Perché, malgrado quel che si immaginava vedendo le sue braccia cadenti, il suo ventre prominente, il suo broncio perenne, Nunzia non era affatto una donna sola. Aveva il suo club di lettura il martedì alle 16, il corso di cucina il venerdì alle 13, tutti e due rigorosamente a casa sua con tutti gli apparecchi telefonici staccati, e una relazione con un omuncolo qualsiasi, scelto tra quei pochi che nel corso degli anni le avevano fatto la corte. Ma lei voleva di più. E forse fu questo suo desiderio, o un afflato di verità, o la necessità in una giornata troppo piena di telefonate da una cornetta all’altra, e perciò da una personalità all’altra, non si sa come mai, ma accadde.

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“Amore sono Carla, tu come ti chiami”
“Carla?”
“Carla o Donato amore, scegli tu, io vado bene per tutte le occasioni”
“Ma io, io volevo Naomi”
“Oh Gesù Gesù, e mi so impappinata, e mi dispiace, ma so andata in confusione, è che corri di qua corri di là, mi sono confusa. Vabbè dai rifacciamo. Sono Naomi amore”
“Eh no, scusa cara, ma ora si è persa la magia, non è che sono tipo, che so, un frullatore, che mi spegni e mi accendi”
“Senti coso, decidi tu, se vuoi lo facciamo sennò puoi pure attaccare… ma tu guarda un poco questo”
“Oh bambola, coso no! Facciamo così, io adesso voglia non ne ho più, ma il telefono è dell’azienda e una chiacchierata me la posso pure fare, tanto pagano loro.”

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E fu così che cominciò. E uno potrebbe credere che Nunzia allora abbia raccontato a quello sconosciuto della sua vita, del suo aspetto, della sua obesità, della sua passione per la scrittura. Invece no. Nunzia creò una nuova personalità: Gaia, studentessa ventiquattrenne di Lettere, con l’ambizione di diventare professoressa di liceo, sempre sorridente, castana, occhi verdi, fisico atletico. Non poteva sapere Nunzia il guaio che aveva combinato. Le cose per lei si complicarono molto, gestire quattro ruoli è una cosa stancante, ma cinque è una vera follia. E poi era quasi Natale e sotto le feste essere una operatrice di call center erotico o di veggenza è come fare il commercialista durante il periodo della dichiarazione dei redditi: il caos. Chi voleva masturbarsi cantando Jingle bells, chi voleva sapere se il marito pentito avrebbe lasciato l’amante per tornare da lei e dai bambini, chi voleva ingaggiare un trans per fare uno scherzo durante la festa in ufficio. I telefoni e le orecchie di Nunzia bollivano, e ora c’era lui, Davide, innamorato di Gaia, il personaggio partorito in quella sciagurata conversazione da Nunzia, al secolo Annunziata, a volte Naomi, spesso Carla, talvolta Fatima. Accadeva, oramai spesso, che mentre era impegnata in una conversazione cominciasse a squillare un altro degli apparecchi, tanto che aveva dovuto molte volte non rispondere, e aveva ricevuto già molte lamentele da parte dei suoi sconosciuti capi, ma soprattutto aveva ripetuto l’errore di quella volta con Davide, e aveva desiderato mozzarsi la lingua e non rispondere mai più a nessuno. Poi accadde l’imponderabile. Mentre si stava barcamenando tra più conversazioni, in una delle quali sosteneva di essere passivo e attivo all’occorrenza e in un’altra in cui sosteneva di avere una ottava naturale, le sembrò di udire un trillo diverso da quelli dei telefoni. Eppure non era la giornata del club di lettura, né quella del corso di cucina, ma ne era certa: era il citofono. Rispose ancora in preda allo sbigottimento ma mai come quando, dall’altra parte, il visitatore si identificò come Davide. Non le sembrò di poter fare altro che aprire e, in un lampo, si immaginò come l’eroina romantica di una storia d’amore come quelle della tv. Avrebbe confessato tutto e lui, oramai innamoratosi di lei per via delle lunghe e frequenti telefonate in cui si fingeva Gaia, l’avrebbe perdonata e amata. Certo tutto questo dipendeva molto da come sarebbe stato lui. E lui arrivò, tre rampe di scale dopo, mentre ancora Nunzia fluttuava tra i suoi pensieri. Non era un adone certo quello che le si presentò allo spioncino, ma al confronto col suo fidanzato pareva appartenere ad una specie diversa. Si guardarono negli occhi.

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“Salve signora, sono Davide, c’è Gaia?”
“Ma tu Gaia come l’hai trovata?” chiese lei in un attimo di lucidità.
“Vede signora io lavoro per il controllo qualità di una società di… call center”
“…”
“Vede Gaia lavora in un call center e io l’ho chiamata e poi ho chiesto, o meglio ho preso, dall’azienda i suoi recapiti.”

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Seguirono alcuni minuti di silenzio, dopotutto era carino ma lì, fuori dalla porta di casa sua con un bouquet di fiori gialli in mano, aveva qualcosa che le ricordava un maniaco da telefilm più che un principe azzurro da favola. Decise in un lampo Nunzia, decise che era ora o mai più, e gli raccontò tutto. Davide ne fu disgustato, la chiamò grassona, la rifiutò con decisione ululando il nome Gaia come se esistesse davvero e, durante la sua scena madre in cui si lasciò cadere in ginocchio, Nunzia non ci pensò due volte e lo spinse per le le scale. I carabinieri lo catalogarono come incidente, dopotutto al piano dal quale il bel Davide era ruzzolato giù c’erano due soli appartamenti: in uno abitava la grassona in casa in quel momento e nell’altro una splendida ragazza, ballerina di teatro, che al momento dei fatti era fuori città. Il giovane aveva ancora il mazzo di fiori tra le mani e da chi delle due poteva mai essersi recato? Conclusero le indagini velocemente grazie a questo indizio, e ritennero piuttosto logica la spiegazione che il giovane, invaghitosi della ballerina, avesse ceduto al dolore di non trovare in casa la sua amata e si fosse lasciato cadere spontaneamente per le scale. Nunzia però pativa molti sensi di colpa, quel cretino dopotutto non meritava di morire, anche lei aveva qualche piccola responsabilità, si diceva. E fu per questo che chiuse definitivamente coi call center e con le sue personalità. A costo di numerosi sacrifici economici. Quando il conto di Nunzia fu sul punto di implorare pietà la donna, oramai quasi guarita dai sensi di colpa, si decise a cercarsi un altro lavoro. E fu un sogno. Fu infatti assunta in un piccolo giornale per curare la rubrica dei problemi d’amore. Al momento di inviare la sua biografia ci pensò un attimo, la scrisse in fretta e poi premette invio.

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“Caro direttore,
le allego breve biografia:
Mi chiamo Sonia, ho 26 anni, laureata in psicologia sogno di girare il mondo in canoa, sono infatti appassionata di sport in generale e in particolare di quelli che hanno a che fare con l’acqua…” A tale descrizione aggiunse la foto di una splendida surfista australiana.


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