Forse c’è qualcosa di primitivo in me, qualcosa che mi fa dire che a ogni sbalzo del meteo io cambio umore, qualcosa che mi fa pensare che a ogni gradino salito si possa cambiare prospettiva, qualcosa che a volte mi fa affilare le unghie e che in certi giorni mi spinge a dormire come un gatto in letargo (perché i gatti vanno in letargo, vero?).
Forse c’è qualcosa di erbivoro in me, una insana attrazione per ogni forma di frutto o d’ortaggio che non sia verde (il verde lo detesto), con inclusione di teste di cavolo e di cetrioli senza sapore e di insalate dal basso contenuto calorico; no, non sto parlando di ortaggi, la metafora è sottile e mal riuscita, sto parlando di persone: io mi imbatto sempre in quelle che van bene solo per farci un minestrone.
Forse c’è qualcosa di carnivoro in me, e compare quando, dopo una tisana, necessito di mordere il cuscino e di tirare uno schiaffo al muro -facendomi male da me- o quando aggredisco verbalmente chi non c’entra. Perché è nella logica delle cose che le persone a cui io rimprovero qualcosa non c’entrano mai niente. O centrano; ma non lo vogliono ammettere.
Non so la mia dietologa cosa ne direbbe, ammesso che ne avessi una -di dietologa; probabilmente mi ricovererebbe in clinica lasciandomi a pane e acqua per un po’; ma allora mi lamenterei perché io sono già a pane e acqua dentro. Dentro sì. Dove manca il nutrimento, dove manca l’affetto e tra un po’ penso che crescerà un cactus dentro al mio cuore deserto.Dentro, appunto. Dentro.
Così potrò anche spinare e non avrò più bisogno di sentirmi inadeguata; o forse potrò solo attendere le cure di qualcuno, che mi dia da bere una volta all’anno e che mi rincalzi un po’ la terra alle piccole radici se viene meno; e allora dovrei fidarmi e lasciare che siano gli altri a prendersi cura di me.
E allora la dietologa direbbe che sono guarita; ma il cactus dentro mi rimarrebbe per sempre.
Già, perché proprio io questo non lo so fare: fermarmi e lasciarmi coltivare. Nemmeno dall’amore.