Di Grazia Serao. Articolo 18 sì o articolo 18 no. È il dilemma che va avanti da quindici anni, tra proposte di riforma, presunta necessaria abolizione ed opposizione dei sindacati. L’abolizione della tutela reintegratoria offerta da tale disposizione è diventata anche per l’attuale governo vessillo della lotta alla precarietà del lavoro e punto di partenza per la ripresa dell’economia.
Ma cosa vuol dire oggi per un lavoratore di una grande impresa l’articolo 18? Il testo attuale della disposizione, così come residua dalla riforma Fornero, prevede che il giudice possa, con una propria sentenza, coattivamente prevedere la reintegrazione del lavoratore nel proprio posto di lavoro nel caso in cui il datore (sia egli imprenditore o meno) abbia posto in essere un licenziamento discriminatorio, o che violi i diritti riconosciuti alla donna lavoratrice in stato di maternità, oppure lo abbia intimato in costanza di matrimonio, o ancora nel caso in cui alla base della licenziamento vi sia un motivo illecito. In alternativa allo stesso lavoratore è concessa la facoltà di optare per il risarcimento del danno (mensilità perse più un indennizzo di 15 mesi). Questa possibilità è stata pensata per consentire al lavoratore di evitare di dover tornare in un ambiente lavorativo che potrebbe essere ostile.
Tale disciplina, che si applica ai lavoratori impiegati nelle imprese con più di 15 dipendenti, è oggi agli occhi di gran parte del mondo politico un “privilegio” non più adatto al mondo del lavoro, alla cui flessibilità anzi rappresenta un ostacolo.
Ebbene, prima di tutto deve precisarsi che l’articolo 18 non conferisce affatto un privilegio, ma un diritto. Esso non fa altro che applicare ai rapporti di lavoro il principio dell’esecuzione coattiva del contratto, che è alla base del diritto comune. A titolo di esempio: se Tizio stipula un contratto con Caio, il quale si obbliga a vendergli un determinato bene è chiaro che se Caio viene meno all’obbligo assunto il compratore (Tizio) può chiedere al giudice una sentenza che abbia gli stessi effetti del contratto stipulato. Allo stesso modo l’articolo 18 garantisce il lavoratore da possibili licenziamenti ingiusti da parte del datore. La sua abolizione non vuol dire cancellare un privilegio, ma eliminare un diritto: una differenza netta che, non solo sul piano strettamente giuridico, ma anche sulla base del senso comune può essere facilmente compresa.
Se dunque è così importante, perché abolirlo? La ragione che oggi Renzi (e prima di lui Monti e Berlusconi) propina è quella dell’eccessiva rigidità della tutela offerta l’articolo 18, anch’essa causa dell’immobilismo della nostra economia. Come dire che la crisi che attraversiamo sia dovuta non solo al blocco dei meccanismi capitalistici e alla mala-gestione del denaro pubblico e privato, ma che sia anche un po’ responsabilità dei lavoratori. E’ la scusa buona che trova chi non sa affrontare le crisi del mercato se non scaricandole sul costo del lavoro.
Le vaghe spiegazioni fornite dal Premier, intervistato da Fazio a “Che tempo che fa”, non reggono: ”Questo diritto che c’è arriva da un giudice, noi vogliamo cancellare questo. Non voglio che la scelta di licenziare o assumere sia in mano ad un giudice, deve essere in mano all’imprenditore”.
A ben vedere nessuna norma di legge nel nostro ordinamento impedisce all’imprenditore di licenziare. Nulla impedisce al datore di lavoro di licenziare dei propri dipendenti per ragioni economiche: il licenziamento per “motivi economici” esiste dal 1966. Anche l’azienda che grazie all’acquisto di nuovi macchinari ha bisogno di meno lavoratori li può licenziare: si tratta del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il quale però deve essere provato dal datore di lavoro davanti al giudice per evitare delle facili elusioni delle norme di legge.
Matteo Renzi sostiene che l’abolizione dell’articolo 18 è il primo di una serie di provvedimenti volti a ridurre la precarietà del lavoro. Non si capisce però perché non basti a tale scopo eliminare i tanti contratti di precariato esistenti. È come dire che per tutelare alcuni lavoratori si elimini la tutela offerta ad altri.
Senza tener conto inoltre dell'”effetto psicologico” che un passo del genere potrebbe avere sui lavoratori: quanti dipendenti comincerebbero a sentirsi ostaggio del proprio datore di lavoro? Quanti avrebbero il coraggio di rifiutare di svolgere degli straordinari non obbligatori? Quanti deciderebbero di lamentarsi per il mancato rispetto di un proprio diritto da parte del datore?
Ma non è solo questo. L’articolo 18 è anche il simbolo di una conquista ideologica: quella che vede il lavoratore non più come un essere inanimato, un ingranaggio del grande ciclo produttivo, ma il protagonista dell’azienda, la cui dignità va rispettata.
Come si può mandare all’aria tutto questo?