Se nella sostanza riteniamo che sia opportuno riconoscere un periodo di tre anni di maggiore flessibilità all’inizio del rapporto di lavoro, perché abbiamo paura a dire che per questi primi tre anni si può essere assunti a tempo indeterminato – ciò che costituisce comunque un vantaggio per i new entrants, rispetto all’assunzione a termine – anche senza che si applichi l’articolo 18? Perché continuiamo a coltivare questa nevrosi, o se preferite questa ipocrisia politica, non degna di un grande partito che si qualifica riformista e si candida a governare il Paese? Come si concilia questa incongruenza verbale con la trasparenza, che dovrebbe costituire uno dei principi fondamentali del nostro operare politico e quindi anche del nostro modo di parlare?
Ma, soprattutto, come possiamo non renderci conto che una regola, come questo benedetto articolo 18, che oggi si applica soltanto al 3 per cento della forza-lavoro complessiva dell’Unione Europea, non può essere considerata come un diritto fondamentale immodificabile (perché i diritti fondamentali – per definizione – hanno carattere di universalità)? Un partito che si qualifica come riformista non può chiudere programmaticamente gli occhi sul panorama europeo delle tecniche di protezione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori. La nostra incapacità di superare questo blocco mentale rischia di condannarci a rimanere tagliati fuori dal processo di riforma del lavoro che costituisce parte integrante – e niente affatto secondaria! – del programma del Governo Monti.
La seconda notazione critica è questa: se la scelta del Pd di cui stiamo discutendo – di accettare un triennio iniziale di maggiore flessibilità del rapporto di lavoro è dettata da un bilanciamento tra le esigenze di protezione dei lavoratori e le esigenze organizzative delle imprese, perché nel nostro dibattito interno su questa materia gli imprenditori sono pressoché totalmente assenti? Perché i nostri forum del lavoro e i nostri gruppi nelle Commissioni lavoro di Camera e Senato sono composti soltanto da sindacalisti o ex-sindacalisti e magari da qualche giuslavorista, ma nessun rappresentante dell’imprenditoria? E sì che non ci mancano i Colaninno, le Merloni, i Sangalli, le Fioroni, i Marcucci: davvero tutti questi imprenditori che militano nelle nostre file non hanno nulla da dire su questi temi? O forse diamo loro l’impressione che il partito non gradisca il loro intervenire in questo dibattito, o consideri il loro intervento poco rilevante ai fini delle scelte che dobbiamo compiere?
Eppure ormai dovrebbe essere chiaro a tutti noi che l’impresa è tanto necessaria per dare valore al lavoro quanto il lavoro stesso è necessario all’impresa. Che dunque un partito propenso a non ascoltare o a mettere nell’angolo la voce delle imprese non può essere un buon difensore degli interessi dei lavoratori. Che, più in generale, un sistema incapace di darsi un ordinamento del lavoro attrattivo per le imprese, nell’era della globalizzazione, è un sistema che si condanna a essere disertato dalle imprese, condannando quindi i propri lavoratori ad avere poche occasioni di lavoro e trattamenti complessivamente deteriori.
Già immagino che qualcuno ora mi ritorcerà contro quest’ultima osservazione. Mi si obietterà: “Proprio tu dici questo, che hai firmato un progetto tendente a porre a carico delle imprese ingenti oneri per il sostegno al lavoratore nel mercato del lavoro?”. Rispondo subito: è vero, quel mio progetto chiede molto alle imprese, ma è stato approfonditamente discusso e affinato per anni in un confronto continuo non soltanto con i lavoratori e i loro sindacati, bensì anche con le imprese, le loro associazioni, i loro responsabili della gestione delle risorse umane. Proprio da questo lungo e capillare confronto tre anni fa è nata non solo la lettera aperta al ministro del Lavoro di centinaia di giovani interessati alla riforma, ma anche quella di 75 imprese – di tutte le dimensioni – che già allora si dichiaravano disponibili a farsi carico degli oneri previsti da quel progetto, considerandoli ampiamente compensati dai vantaggi economici della maggiore flessibilità che il progetto stesso offre loro, azzerando il ritardo nell’aggiustamento degli organici. Ed è ancora da quel capillare confronto che è nato l’endorsement esplicito dato a questo progetto dal Comitato Investitori Esteri di Confindustria, nel documento presentato al Governo Monti nei giorni scorsi.
Oggi non è il momento di coltivare polemiche al nostro interno. È il momento di unirci intorno a una proposta seria di riforma, congruente con i punti fermi posti su questa materia da Mario Monti nel suo discorso programmatico del 17 novembre al Senato e con quello che ci chiede l’Unione Europea. Quale che sia l’opinione di ciascuno di noi sul “contratto prevalente di ingresso”, cui ha fatto riferimento Stefano Fassina nella sua relazione, è evidente che esso non esaurisce i temi della riforma a cui il Governo Monti sta lavorando. In particolare, resta fuori da questo progetto il tema della riforma degli ammortizzatori sociali, che dobbiamo affrontare tenendo conto del fatto che lo Stato potrà dedicarvi risorse aggiuntive assai esigue. Ma anche tenendo conto del fatto che il problema cruciale, in materia di trattamenti di disoccupazione, non è soltanto quello delle risorse necessarie per finanziarli, bensì anche quello della capacità di coniugare la loro erogazione con un forte esercizio della “condizionalità” dei trattamenti stessi. Non possiamo nasconderci la pressoché totale incapacità dei servizi pubblici per l’impiego, oggi, di esigere e controllare la disponibilità effettiva dei lavoratori disoccupati per tutto quanto è necessario al fine del reperimento di una nuova occupazione; anche perché i nostri servizi pubblici sono lontani dall’essere capaci di fare tutto quanto è necessario in questo campo.
Questo è il motivo per cui mi pare utile che la nostra proposta sia integrata da un’apertura positiva alla disponibilità che sta emergendo da numerose imprese, in diverse regioni, per la sperimentazione anche di tecniche nuove di protezione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori. Qualche giorno fa, in un’importante intervista, Cesare Damiano ha sottolineato che tutti noi consideriamo il sistema di protezione danese come uno dei migliori del mondo, salvo rilevare – condivisibilmente – che da noi mancano le risorse pubbliche necessarie per attuarlo. Questo però significa che, dove invece le risorse ci siano, perché l’impresa stessa è disposta in via sperimentale a mettercele, la sperimentazione di quel modello non può che essere considerata da noi positivamente, anche come passaggio necessario per elaborare e acquisire in questo campo un know-how che potrà esserci utile in futuro.
Nella valutazione di questa prospettiva non dobbiamo sottovalutare l’importanza che può assumere, per aumentare la capacità del nostro Paese di attrarre gli investimenti esteri, anche la possibilità della sperimentazione, per i nuovi rapporti di lavoro e in particolare per i nuovi insediamenti, di una nuova disciplina semplificata e allineata con i migliori standard nord-europei. Migliori, s’intende, non soltanto dal punto di vista dell’impresa, ma anche da quello dei lavoratori: perché le multinazionali non hanno alcuna intenzione – né del resto potrebbero permettersi – di presentarsi sul nostro mercato del lavoro offrendo condizioni di lavoro di livello complessivamente inferiore rispetto ai nostri standard nazionali. Mentre, viceversa, puntare su di un loro più intenso loro afflusso costituisce una delle leve più importanti sulle quali possiamo agire, per aumentare la domanda di lavoro, la sua produttività e quindi anche il livello della sua retribuzione media. Dunque, di che cosa abbiamo paura?