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Lazarillo de Tormes, il primo dei picari

Creato il 14 agosto 2013 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
Pubblicato anonimo nel 1554 e tutt'ora non ascrivibile alla penna di un autore, il breve testo La vita di Lazarillo de Tormes e delle sue fortune e avversità è considerato il capostipite del romanzo picaresco, ovvero di quel particolare genere di narrativa che si diffonde nella seconda metà del XVI secolo e che ha la sua massima fioritura nel XVII, con la pubblicazione del Don Chisciotte di Cervantes (1605). Caratteristiche del romanzo picaresco sono l'adozione della prospettiva dell'autobiografia e il susseguirsi di avventure all'insegna della mediocrità, della bassezza, della disonestà e dell'immoralità.
Lazarillo de Tormes, il primo dei picari
I picari, dunque, sono personaggi senza particolari qualità, antieroi provenienti dagli strati sociali più poveri; tentano di vivere alla giornata, senza disdegnare di ricorrere a furti e inganni. Non si possono tuttavia tacciare di malvagità, perché il loro comportamento è la conseguenza della necessità di adeguamento ad un mondo crudele, che non guarda in faccia nessuno e in cui non viene regalata una sola briciola di pane. Manca infatti, in questa narrazione, condotta con toni amari e sarcastici, qualsiasi presa di posizione morale.
In questo senso, Lazarillo può far risalire i propri modelli comportamentali ai protagonisti dell'unico romanzo latino di cui ci rimanga traccia, il Satyricon di Petronio (I sec. d.C.), i cui protagonisti, Encolpio, Gitone, Ascilto ed Eumolpo passano attraverso una serie di vicissitudini sopravvivendo proprio grazie alla frode e ai sotterfugi più subdoli e disinibiti. Anche in questo testo non si avverte il giudizio dell'autore che, sebbene non sia del tutto sconosciuto, non è una personalità chiaramente identificabile[1].
Lazarillo de Tormes, il primo dei picari
Lazarillo racconta la sua storia in forma epistolare (scrive infatti ad un ecclesiastico), scandendola in sette capitoli che corrispondono a momenti di servizio presso sette padroni diversi: un mendicante cieco, un prete avaro, uno scudiero in miseria, un frate che vende false bolle papali, un cappellano, un alguacil[2] e un arciprete al quale deve la sua ultima sistemazione e un matrimonio su cui aleggiano diversi pettegolezzi. Con candore, senza vergogna e senza timore di giudizio, Lazarillo ci mette al corrente di tutto quanto ha fatto per poter sopravvivere, dagli astuti furti di cibo al mendicante cieco che lo teneva alla fame, alla tacita collaborazione nel piazzamento delle false bolle di indulgenza, dall'occupazione abusiva della casa di un morto, alle rocambolesche fughe da folle inferocite dalle imprese dei suoi padroni.
Nel prologo Lazarillo ci informa che la messa per iscritto delle sue memorie muove dalla convinzione che vi sia qualcuno che possa trarne svago e divertimento. Nonostante si rivolga ad un uomo di chiesa, non fa alcun cenno al pentimento per le azioni disoneste che ha compiuto perché, come già detto, non c'è alcun intento di denuncia né di autoanalisi, così come non v'era censura o forma di condanna nelle pagine di Petronio.
Si intuisce, tuttavia, che l'autore di Lazarillo de Tormes, così come il suo precedente latino, ha una cultura molto vasta. Dobbiamo pensare, pertanto, che allo scopo primario e universale del diletto e dell'intrattenimento, in questo romanzo, al pari del Satyricon, si insinui un messaggio più elitario, collocato ad un livello profondo, che implica non un giudizio di biasimo per gli sfortunati picari, ma, piuttosto, una riflessione sulla società che li costringe ad essere tali.
Lazarillo de Tormes è un libricino agile e molto breve, scritto con brio e pieno di toni e situazioni che ricordano alcuni passi delle divertenti avventure boccacciane. Lo consiglio[3] per il suo valore storico, per la possibilità di illuminare molti personaggi della letteratura mondiale successiva, da Manon Lescaut a certi risvolti del nostro Renzo Tramaglino, ma anche solo per trascorrere una piacevole ora di svago.
«Così vanno le cose a questo mondo; e io, che confesso di non essere più santo dei miei compaesani, questa cosetta da nulla, scritta, come vedete, in uno stile davvero grossolano, non mi dispiacerà se la conosceranno e ne ci si divertiranno tutti quelli che ci piglieranno gusto, e così vedranno che un uomo può vivere in mezzo a tante avventure, pericoli e avversità.»[4]

C.M.
NOTE:
[1] Il Petronius Arbiter, il cui nome si lega al manoscritto che ha tramandato il testo, non è con totale certezza il Petronius arbiter elegantiae ('maestro di eleganza') che Tacito descrive come membro della corte di Nerone e poi suicida per sfuggire alla condanna di questi; ci sono, tuttavia, molti elementi che lo fanno pensare.
[2] Titolo con cui si indica un eminente personaggio politico (vassallo, cavaliere, giudice o governatore).
[3] Suggerisco anche il Satyricon di Petronio, indicando l'edizione Rizzoli (BUR) per il particolare colorito della traduzione di A. Aragosti, che rende bene le formule del parlato. [4] Cit. dal prologo.

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