Magazine Cultura

“Le affinità alchemiche” di Gaia Coltorti

Da Vivianap @vpicchiarelli

Schermata-2013-01-09-alle-09.37.30-196x300Giovanni ha diciotto anni, trascorsi quasi tutti a Verona, dove è nato. Una vita tranquilla, qualche amico e, ogni giorno, i lunghi allenamenti in piscina per prepararsi alle gare. Anche a casa regna la quiete: Giovanni vive solo con suo padre, notaio, in quel genere di grande appartamento abitato da due uomini che ogni donna può immaginarsi. Selvaggia ha diciotto anni, molte amiche e diversi spasimanti, vive sul mare e assapora l’estate appena iniziata quando sua madre le sconvolge la vita: si trasferiranno per ragioni di lavoro. Selvaggia cambierà scuola, dovrà ricominciare tutto da capo e lo dovrà fare a Verona, la città dove è nata e da cui proprio la mamma, tanti anni prima, l’aveva portata via, separandola dal padre e dal fratello gemello. Quando Selvaggia varca per la prima volta la soglia della nuova casa, Giovanni è rintanato in camera sua. Gli basta la voce di lei per capire che nulla sarà più come prima. Giovanni scopre quella voce come un regalo, ma al tempo stesso la riconosce, è un suono che vive da sempre dentro di lui: Selvaggia, la sorella perduta, è tornata nella sua vita, per sempre. Lei a Verona non conosce nessuno: solo Johnny – come lo ha subito ribattezzato – può farle da guida e tenerle compagnia nei tre lunghi mesi che devono trascorrere prima della ripresa scolastica. Selvaggia è bellissima, piena di fascino ma anche capricciosa fino allo sfinimento, croce e delizia per il fratello ritrovato. Presto tra i due si sprigiona un’elettricità, un magnetismo, un’affinità…

A prima vista il tema, scottante e drammatico, dell’amore incestuoso tra due fratelli gemelli poteva rappresentare un’idea interessante dal punto di vista narrativo per vivacizzare il panorama letterario odierno ancora carico dell’abbuffata erotica che ha invaso gli scaffali delle librerie negli ultimi mesi.

In realtà, a mio modesto avviso, il libro è pessimo.

La storia non regge: due gemelli separati poco dopo la nascita perché la madre decide di andar via di casa portando con sé la bambina, mentre il padre insiste per avere il maschio… quasi diciotto anni di lontanza e poi, guarda un pò, la famiglia prova a ricostituirsi (sorvoliamo sui tentativi penosi messi in atto dai due “parents”, come vengono identificati nel libro).

Narrazione ingarbugliata, con una sintassi che strizza l’occhio al povero Shakespeare senza disdegnare qualche “gulp”, “stra-gulp” , “Uh”, “Gasp”, disseminati qua e là, così, tanto per ricordarci che: 1) si parla di adolescenti; 2) la “scrittrice” è un’adolescente.

Giovanni e Selvaggia, già definiti dal marketing becero di settore i  “Romeo e Giulietta del XXI secolo”, si muovono sullo sfondo delle vie di Verona scambiandosi languide e appassionate dichiarazioni d’amore palesemente anacronistiche e del tutto fuori luogo in bocca a dei tardi adolescenti di oggi. Assolutamente non credibile. Così come il finale.

L’unica nota realistica del romanzo (?) risiede nel profondo divario e nella drammatica incomunicabilità tra adulti e adolescenti.

Non c’era bisogno, però, di rifare il verso al Bardo per affrontare ancora questo tema e, soprattutto, non era fondamentale solleticare palati pruriginosi con la boiata dell’amore incestuoso, il quale, peraltro, sarebbe stato molto più credibile e angosciante se i due si fossero amati senza conoscere il loro grado di parentela.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

COMMENTI (2)

Da Laura Malerba
Inviato il 19 marzo a 19:13
Segnala un abuso

“Le affinità alchemiche” ci offre una sorprendente lettura antiromatica del desiderio amoroso e ci dice che se nel complesso edipico la conflittualità riguarda i sentimenti di amore e odio per i genitori, in queste pagine ove a essere in gioco è il complesso fraterno, la conflittualità riguarda invece l’ambivalenza, la rivalità e l’amore narcisistico nei confronti di un altro riconosciuto come fratello o sorella. Lo straordinario romanzo di Gaia Coltorti ha, fra le altre cose, il grande merito di ricordarci che la dimensione rivalitario-mimetica dei desideri non è mai modificata dalle inclinazioni sessuali: essa è la stessa fra gli omosessuali, è la stessa tra gli uomini come tra le donne ed è la stessa, infine, tra consanguinei e non consanguinei. Completata la lettura, torniamo alla quantità di “avvisi” e “osservazioni” disseminate dall’autrice proprio in questa chiave conflittuale-mimetica (e perciò stesso antiromantica): essi sono rivolti direttamente al lettore tramite una serie di lampeggianti minimi ma anche l’uso, a volte, di grosse segnaletiche stradali tramite cui l’autrice stabilisce un rapporto molto forte col lettore, alimentando un dialogo continuo. Si tratta di un lavoro egregio, che ti tira dentro la caduta dei due amanti e non ti lascia più andare: per dirla coi Maestri, Gaia Coltorti è un giovanissimo e perturbante esempio di quel che nella nostra epoca barbara sembra impossibile: poter affrontare con equilibrio e ironia questioni talmente appesantite dal bagaglio al plutonio delle ideologie, che al più timido accenno ci sembra di essere investiti da una valanga. Ecco. Cercare di scrivere un romanzo innovativo che prova a rivolgersi al pubblico tradizionale senza scordarsi di quello non meno fervido rappresentato dagli “happy few”, i cari pochi sempre in grado di intercettare e condividere lo spirito (anche dissacrante, certo) di una ricerca come quella che dà vita alle “Affinità”, ossia a qualcosa di miracolosamente condotto a buon fine e di cui l’autrice misteriosamente indovina lo scioglimento (Guglielmi). Dunque: perenne sfida fra ragazzi, torneo permanente dei sessi; il forte divario (psicologico e in termini d’esperienze) esistente fra i due giovani protagonisti non stimola il desiderio di conoscenza, ma se mai quello dell’emulazione (Guglielmi). E ancora: insopportabili sdolcinerie e battute argute, sognanti tenerezze e risate giacintine scambiando baci sotto una luna d’erba: oh, persino le bizzarrie (e le incongruenze, persino!) non devono disorientarci, qui, sapendo benissimo che il primo a predisporne ovunque era proprio Shakespeare. Il desiderio daccapo. Che è famelico quanto il mare e può digerire tutto quel che divora. Senza sforzi, tramite le sue “febbri” irresistibili e le sue micidiali escalation, il desiderio mimetico può trasformare gli esseri umani in veri e propri mostri morali, oltre che fisici. Così, è nel cuore esatto del maëlstrom indotto dal mimetismo, che Johnny e Selvaggia, sprofondando, nel corso della festa di Capodanno ballano per l’ultima volta avanti ai nostri occhi. Nel loro modo indimenticabile, in un grande romanzo destinato restare.

Da Laura Malerba
Inviato il 19 marzo a 19:11
Segnala un abuso

“Le affinità alchemiche” ci offre una sorprendente lettura antiromatica del desiderio amoroso e ci dice che se nel complesso edipico la conflittualità riguarda i sentimenti di amore e odio per i genitori, in queste pagine ove a essere in gioco è il complesso fraterno, la conflittualità riguarda invece l’ambivalenza, la rivalità e l’amore narcisistico nei confronti di un altro riconosciuto come fratello o sorella. Lo straordinario romanzo di Gaia Coltorti ha, fra le altre cose, il grande merito di ricordarci che la dimensione rivalitario-mimetica dei desideri non è mai modificata dalle inclinazioni sessuali: essa è la stessa fra gli omosessuali, è la stessa tra gli uomini come tra le donne ed è la stessa, infine, tra consanguinei e non consanguinei. Completata la lettura, torniamo alla quantità di “avvisi” e “osservazioni” disseminate dall’autrice proprio in questa chiave conflittuale-mimetica (e perciò stesso antiromantica): essi sono rivolti direttamente al lettore tramite una serie di lampeggianti minimi ma anche l’uso, a volte, di grosse segnaletiche stradali tramite cui l’autrice stabilisce un rapporto molto forte col lettore, alimentando un dialogo continuo. Si tratta di un lavoro egregio, che ti tira dentro la caduta dei due amanti e non ti lascia più andare: per dirla coi Maestri, Gaia Coltorti è un giovanissimo e perturbante esempio di quel che nella nostra epoca barbara sembra impossibile: poter affrontare con equilibrio e ironia questioni talmente appesantite dal bagaglio al plutonio delle ideologie, che al più timido accenno ci sembra di essere investiti da una valanga. Ecco. Cercare di scrivere un romanzo innovativo che prova a rivolgersi al pubblico tradizionale senza scordarsi di quello non meno fervido rappresentato dagli “happy few”, i cari pochi sempre in grado di intercettare e condividere lo spirito (anche dissacrante, certo) di una ricerca come quella che dà vita alle “Affinità”, ossia a qualcosa di miracolosamente condotto a buon fine e di cui l’autrice misteriosamente indovina lo scioglimento (Guglielmi). Dunque: perenne sfida fra ragazzi, torneo permanente dei sessi; il forte divario (psicologico e in termini d’esperienze) esistente fra i due giovani protagonisti non stimola il desiderio di conoscenza, ma se mai quello dell’emulazione (Guglielmi). E ancora: insopportabili sdolcinerie e battute argute, sognanti tenerezze e risate giacintine scambiando baci sotto una luna d’erba: oh, persino le bizzarrie (e le incongruenze, persino!) non devono disorientarci, qui, sapendo benissimo che il primo a predisporne ovunque era proprio Shakespeare. Il desiderio daccapo. Che è famelico quanto il mare e può digerire tutto quel che divora. Senza sforzi, tramite le sue “febbri” irresistibili e le sue micidiali escalation, il desiderio mimetico può trasformare gli esseri umani in veri e propri mostri morali, oltre che fisici. Così, è nel cuore esatto del maëlstrom indotto dal mimetismo, che Johnny e Selvaggia, sprofondando, nel corso della festa di Capodanno ballano per l’ultima volta avanti ai nostri occhi. Nel loro modo indimenticabile, in un grande romanzo destinato restare.