Nel drammatico e sempre più indecifrabile scenario siriano è passata quasi inosservata la proclamazione da parte del Partito dell’Unione Democratica (PYD), uno dei due organismi di rappresentanza della minoranza curda siriana, di aver preso sotto il proprio controllo alcune città nella provincia al-Hasakah situata nella zona settentrionali del Paese. Tale dichiarazione non solo ha rianimato l’ambizione della comunità curda di dare vita ad uno Stato autonomo nel nord della Siria ma ha anche allarmato la Turchia che da tempo opera per disinnescare il pericolo che l’anarchia siriana diventi incubatrice per future azioni della guerriglia armata del PKK.
La comunità curda residente in Siria – circa 3 milioni di persone – ha mantenuto dall’inizio delle rivolte contro il regime siriano di Bashar al-Assad una posizione ambivalente evidenziando fratture e visioni differenti al suo interno. Diversi gruppi si sono schierati in evidente appoggio ai ribelli, altri sono rimasti fedeli al regime mentre altri ancora hanno optato per il mantenimento di una posizione “neutrale” evitando di esporsi apertamente con la convinzione di poter sfruttare la situazione a proprio vantaggio alimentando così le ambizioni volte alla costituzione di uno Stato curdo autonomo.
Progetto questo che ha destato le preoccupazioni del governo turco, all’interno del quale la presenza di una vasta comunità curda rappresenta da decenni una questione politica molto delicata. La Turchia considera l’eventuale nascita di uno Stato curdo indipendente nel nord della Siria, lungo quindi i propri confini meridionali, come una presenza molto pericolosa per la propria sicurezza interna in virtù dell’inevitabile appoggio che tale autorità fornirebbe alle rivendicazioni della comunità curda presente in territorio turco, PKK compreso. Le divisioni interne alla stessa comunità curda sono dovute anche al fatto che nel marzo del 2011, poche settimane dopo l’inizio degli scontri, lo stesso Bashar al-Assad aprì ufficialmente alla concessione della cittadinanza ai membri della comunità curda, sperando così di garantirsi la loro fedeltà. Secondo alcuni analisti vi sarebbe persino un accordo non scritto tra i capi del PKK e lo stesso Bashar al-Assad per mantenere tranquille le zone curde nel nord del Paese1.
Il regime siriano ha tenuto negli ultimi vent’anni una politica nei confronti della minoranza curda – circa 9% della popolazione siriana – molto simile a quelle intraprese dagli Stati vicini, frustrando sul nascere qualsiasi richiesta di maggiori spazi d’autonomia e peso politico provenienti dalla comunità. La Siria ha rappresentato per i curdi un rifugio dal momento della nascita della moderna Turchia favorendo lo stesso governo di Damasco che più volte, soprattutto dopo il 1980, ha utilizzato la leva curda per risolvere controversie territoriali e non solo con la Turchia. Negli anni precedenti lo scoppio delle rivolte si sono susseguiti diversi interventi (2004, 2005, 2011) da parte delle forze militari siriane volte a reprimere proteste e sollevazioni in alcune delle città del governatorato di al-Hasakah, lo stesso in cui ora hanno preso potere le autorità del PYD. Nelle ultime settimane sono aumentate lungo tutta la zona del confine settentrionale siriano le bandiere gialle-rosse-verdi.
Le azioni delle forze di sicurezza siriane nell’ultimo decennio sono state condotte in accordo alle autorità turche con cui la Siria si era riavvicinata facendo leva sulla propria collaborazione nel perseguire gruppi di guerriglieri del PKK rifugiatesi in territorio siriano. Il movimento curdo siriano negli stessi anni ha trovato una guida nel Partito dell’Unione Democratica (PYD) che, nonostante i molti attacchi subiti e le persecuzioni, ha saputo incrementare il numero degli affiliati e la propria popolarità grazie ad un minuzioso radicamento sul territorio dove è presente a partire dal 2003 quando nacque come gruppo nazionalista di chiara impronta socialista. Negli ultimi 16 mesi, dall’inizio delle rivolte interne alla Siria, il PYD ha saputo acquisire seguito maggiore rispetto all’altro organismo, il Consiglio Nazionale Curdo, nato nel 2011 come raggruppamento di una quindicina di gruppi curdi locali, alcuni dei quali erano rimasti fedeli al regime, e che gode dell’appoggio politico e finanziario del Governo regionale del Kurdistan iracheno guidato dal Presidente Massoud Barzani. Il Governo del Kurdistan iracheno, grazie all’appoggio nordamericano è riuscito a ritagliarsi una serie di autonomie nei confronti di quello centrale di Baghdad, e viene visto come modello dalla maggior parte della comunità curda siriana.
Tuttavia la situazione siriana presenta molte differenze rispetto a quella irachena; infatti, in Iraq i curdi (17% della popolazione totale) sono concentrati nella zone ricche di giacimenti petroliferi e di gas naturali del nord del Paese, mentre la comunità curda in Siria non dispone di risorse su cui poter fare affidamento come leva per promuovere i propri interessi né con un governo centrale né tanto meno con Paesi terzi. La presenza di Barzani come principale promotore del Consiglio Nazionale ha fin dall’inizio accentuato le differenze tra i due organismi, portando più volte il Consiglio ad accusare e criticare il PYD di collaborazione, mai negata da questi, con il PKK turco. Dietro tali accuse si staglia l’ombra lunga della Turchia, preoccupata da una parte delle crescenti relazioni tra il PKK e i vicini siriani, dall’altra intenta a stringere rapporti amichevoli con il Governo del Kurdistan iracheno con cui ha di recente stipulato accordi di fondamentale importanza per la propria politica energetica. Nei diversi incontri tenutesi tra maggio e giugno tra il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan e Barzani oltre ai molti interessi energetici, tra cui la costruzione di nuovi oleodotti, è stata affrontata anche la questione PKK ed in particolare è emersa la volontà di Ankara di sfruttare il legame instaurato con Barzani per riuscire a creare un collegamento con la comunità curda siriana allontanandola dal PKK.
Gli sforzi in questo senso profusi da Barzani hanno portato alla stipulazione di un’alleanza tra il PYD e il Consiglio con la successiva nascita di del Supremo Consiglio Curdo che formalmente ha assunto il controllo delle città conquistate in precedenza dal PYD tra le quali spiccano i centri di Kobani e Derik. Nonostante la mediazione di Barzani gli equilibri all’interno del movimento appaiono precari e i contrasti di stampo ideologico continuano soprattutto in relazione alle accuse rivolte nei confronti del PYD di continuare a collaborare con il PKK. Una collaborazione che, sia Barzani siai principali esponenti del Consiglio Nazionale, sono ben consapevoli porterà inevitabilmente la Turchia a schierarsi con tutte le proprie forze contro la causa dei curdi siriani. A pesare sulle ambizioni dei curdi siriani è la totale assenza di appoggio da parte di Stati terzi, senza la quale è al momento impensabile riuscire a sviluppare in maniera anche lenta e graduale un processo che porti ad un futuro Governo autonomo nella Siria che verrà. I curdi siriani però, a differenza di quanto successo in Iraq, non hanno molto da offrire in cambio dell’appoggio politico alla propria causa, non a caso tale appoggio al momento è arrivato solamente dal Kurdistan iracheno e dal PKK.
Gli elementi e i fatti fin qui esposti aiutano a comprendere la difficile situazione in cui si trova il governo turco, il quale ha la necessità di salvaguardare la propria sicurezza interna assicurando l’integrità territoriale del Paese – tradizionalmente considerata leva per la legittimazione del Kemalismo prima e del ruolo dei militari poi – argomento molto sentito dall’opinione pubblica turca tuttora figlia della così detta “sindrome di Sèvres2”. A ciò si deve aggiungere che nell’ultimo anno si è assistito lungo tutto il confine meridionale della Turchia ad una escalation di violenza da parte dei guerriglieri del PKK i quali hanno dato vita ad attacchi mirati a convogli militari turchi e ad azioni terroristiche che hanno spinto Ankara a reagire con dure azioni repressive. Secondo il governo AKP il regime di Bashar al-Assad starebbe fornendo armi alla guerriglia del PKK nella speranza di alimentare ulteriori tensioni nella zona di confine; più volte in questi mesi esponenti del governo turco hanno accusato apertamente il regime siriano di fornire appoggio finanziario e militare al PKK3. L’argomento rimane al centro della discussione politica turca con continui attacchi da parte dell’opposizione critica nei confronti di quella che considera una ‘pessima gestione’ della crisi siriana; una gestione che potrebbe rendere critica la posizione di uno dei più fedeli collaboratori di Erdoğan, il Ministro degli Esteri Ahmed Davutoğlu4.
Il recente meeting del Cairo tra il nuovo ‘quartetto’ di potenze regionali (Arabia Saudita, Egitto, Iran, Turchia) denominato “gruppo di contatto”, ha dimostrato come nonostante i buoni propositi – e i molti interessi – egiziani, la spaccatura tra mondo sunnita e sciita sia più viva e profonda che mai; dimostrazione ne è stato il fatto che l’Arabia Saudita abbia disertato l’incontro e che la Turchia stessa abbia deciso di prendervi parte esclusivamente per non danneggiare ulteriormente i rapporti con l’Iran5. In questo scenario fondamentali risulteranno essere le prossime scelte di Barzani il quale dovrà cercare di appoggiare la causa curda senza però recare offesa e timori ad Ankara dove la dirigenza AKP guarda con molta preoccupazione ai recenti sviluppi. A questo si devono aggiungere ragione di equilibrio interno alla politica turca; Erdoğan per promuovere i propri progetti di riforma costituzionale6, ha la necessità di ottenere l’appoggio del partito ultranazionalista ed anti-curdo (Partito del Movimento Nazionalista), il quale più volte si è dichiarato contrario a qualsiasi negoziazione con il movimento separatista curdo.
La Turchia è al momento preoccupata da due possibili evoluzioni della situazione siriana: la prima vedrebbe la nascita di un altro governo autonomo curdo lungo i propri confini, situazione che creerebbe diversi problemi perché alimenterebbe i movimenti separatisti curdi interni al Paese; la seconda, già emersa in queste ultime settimane e culminata con lo scoppio di diversi scontri a fuoco, porterebbe ad una collaborazione tra alcuni gruppi curdi siriani e il PKK, con la creazione di una zona cuscinetto dove trovano rifugio frange della guerriglia curda. Entrambi i possibili scenari sono considerati intollerabili da Ankara che a quel punto, come già annunciato da Erdoğan, si vedrebbe costretta ad intervenire militarmente oltre i propri confini. La Turchia vuole in tutti i modi evitare di essere trascinata in un conflitto di cui teme le ricadute in termini di popolarità nel mondo arabo soprattutto in una delicata fase di transizione nei rapporti tra partito di governo (AKP) ed esercito. Per questo motivo Ankara attraverso l’intermediazione di Barzani potrebbe decidere di sostenere l’ala moderata dei curdi siriani proprio come già fatto in Iraq attraverso un diffuso uso di soft power (sostegno economico, infrastrutture, sviluppo) con la ferma convinzione di riuscire ad allontanarli dal PKK. Un’ipotesi che il governo turco considera temporanea, in attesa che il cambio di regime in Siria porti alla costituzione di un governo centrale forte in grado di inibire definitivamente qualsiasi ambizione autonomistica curda.