Le antiche civiltà dell’Egitto e della Mesopotamia: avvilimento della libertà umana

Creato il 15 marzo 2015 da Appuntiitaliani
Pubblicato il marzo 15, 2015 da: Corrado Gnerre

E’ con il Cristianesimo che nasce il concetto di “storia”, e questo si può dimostrare tenendo presente che cosa le civiltà precristiane hanno detto a riguardo.
Quando parliamo del concetto di “storia” non intendiamo solamente la consapevolezza che certi fatti ormai sono passati, perchè –è chiaro- questo tipo di consapevolezza l’hanno posseduta tutte le civiltà; intendiamo piuttosto la convinzione della storia come divenire di fatti sempre nuovi e, per la maggior parte dei casi, imprevedibili. Intendiamo, insomma, il cosiddetto “divenire storico”, questo sì un’originalità del giudizio cristiano; originalità dovuta all’antropologia cristiana (“antropologia” vuol dire “il modo di pensare l’uomo”). Prima del Cristianesimo si credeva che i fatti si ripetessero continuamente, che nulla fosse davvero “nuovo”, e questo perchè l’uomo non era ritenuto un essere libero, capace di poter liberamente decidere.

Procediamo con ordine.

Le civiltà precristiane hanno avuto tutte (tranne quella ebraica, e i motivi sono facilmente comprensibili) come caratteristica comune una prospettiva tendenzialmente fatalista, basata cioè sulla convinzione che l’uomo fosse impotente nei confronti degli avvenimenti, che ci fosse un destino che decideva tutto.

Iniziamo con l’Egitto. Gli dèi si presentavano come i veri padroni della vita degli uomini, come coloro che impietosamente imponevano la loro volontà, spesso capricciosa. Un esempio per tutti: Maat, dèa della giustizia, era rappresentata in ginocchio con le ali completamente aperte e il corpo perfettamente equidistante dalle estremità, ma il volto ed anche lo stesso corpo rivolti verso una sola direzione.

A me il significato sembra molto chiaro. La posizione della dèa (che guarda in una sola direzione, pur mantenendosi equidistante dagli estremi) significa che l’uomo egiziano doveva, da una parte, illudersi di poter ricevere un giudizio giusto per le proprie azioni (ecco il significato del corpo equidistante dagli estremi); ma, dall’altra, convincersi che, indipendentemente dalle sue scelte e dalle sue azioni, tutto era ormai deciso e giudicato (ecco il significato del corpo e del volto rivolti in un’unica direzione).

Passiamo alla Mesopotamia. Anche per gli dèi delle civiltà che si sono succedute in questo contesto geografico, vale lo stesso discorso. I miti li ritraggono spesso nell’atto di banchettare o di litigare fra loro, ma mai interessati a tener conto della volontà degli uomini. Le stesse città-stato erano ritenute non tanto luogo d’attività umane, quanto dominio terreno ed arbitrario di capricciose forze divine. Un chiaro esempio è la famosa Epopea di Gilgamesh. Questi era re di Uruk e trattava con durezza i suoi sudditi. Gli déi decisero di punirlo e così gli inviarono un selvaggio, Enkidu. Ma Gilgamesh, astutamente, se lo rese amico: è l’umanità che si allea per combattere il divino, ritenuto non amico ma ostile. I due nuovi amici, Gilgamesh ed Enkidu, vissero eroiche avventure contro tanti mostri; e in una di queste imprese Enkidu arrivò ad offendere gli dèi, in particolar modo Ishtar.

Per questo Enkidu ebbe la sorte segnata, fu costretto a morire ma non prima di aver inveito contro gli déi. Gilgamesh si addolorò molto per la morte dell’amico e da allora decise di dedicare tutto il suo tempo per combattere il volere degli déi e per trovare una miracolosa pianta che avrebbe potuto ridare la vita a Enkidu. Riuscì a trovarla ma poi se la fece divorare da un serpente. E’ la dimostrazione che ciò che è già deciso non può essere modificato. “Amici, -dice Gilgamesh- chi è superiore alla morte? Sotto il sole gli déi vivono per sempre. Ma per gli uomini i giorni sono contati; qualunque cosa essi conquistino, non è che vento.”.

Ma c’è dell’altro che dobbiamo dire. La storia tende ad assumere una caratteristica di perpetuità (cioè di ritorno ciclico e quindi di avvilimento della libertà umana) in situazioni in cui l’uomo è totalmente definito dallo Stato, cioè vive in funzione di esso. Il Faraone egiziano regnava su una società divisa rigorosamente in caste, dove non vi era la possibilità di migliorare la propria condizione sociale. L’uomo era ritenuto parte di un tutto (e fin qui nulla di strano), ma questo “essere parte di un tutto” impediva la consapevolezza della propria singolarità, ritenuta del tutto inutile al di fuori di uno Stato pensato come l’unica vera realtà. Può sembrare strana una cosa del genere, ma l’uomo dell’Egitto antico non era convinto di esistere individualmente, cioè come realtà autonoma dalla collettività.

Anche nel contesto persiano il sistema sociopolitico era segno di un uomo che non poteva pensarsi artefice della propria storia. Ippocrate, il famoso medico greco ritenuto il fondatore della medicina scientifica e sempre attento all’influenza del contesto politico e dello stile di vita sullo stato di salute, scrisse nel suo celebre Corpus che i popoli dell’Asia erano deboli proprio a causa di istituzioni troppo oppressive e mortificanti…e detto da lui, greco del V-IV secolo a.C., cioè in un periodo non certo di libertà dell’uomo dallo Stato, è quanto dire!

di Corrado Gnerre


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