In un paese indefinito sull’orlo del precipizio giunge dal nulla un misterioso nano detto il Principe insieme ad un enorme container contenente una balena imbalsamata.
Dalle fisarmoniche sfiatate di un assurdo tango ballato col gomito alzato in una locanda ai confini dell’universo, Tarr ci trasporta nuovamente in un altro non-luogo riallacciando il filo col suo Capolavoro Satantango (1994). Siamo ancora in un locale dove uomini derelitti si trascinano a fatica tra tavoli e bicchieri sporchi, entra in scena il giovane János Valuska che atteso dai clienti fa veder loro che cosa sia un’eclissi solare. E dopo che la sua rappresentazione ha fine, parte la prima di quelle che saranno in totale 4 entrate musicali, strepitose emozionanti palpitanti, del fedele Mihály Vig. Ed è da questo piano sequenza iniziale che si può comprendere, o almeno provare a farlo, su quali mondi di idee si affacci questo film, su quali abissi universali getti il suo sguardo penetrante.
Nell’osteria vediamo la solita decadenza tarriana, il solito ammasso di rifiuti umani, ubriaconi li definirà il barista. Quando Valuska profetizza l’oscuramento del sole con le sue descrizioni di terrore e miseria, ecco che parte una musica in antitesi con la materialità che si consuma sullo schermo. Come il musicista tedesco Andréas Werckmeister che considerava la musica al pari dell’armonico movimento degli astri ma che fu “falsificata” proprio dallo stesso tramite il suo sistema in ottave, Tarr suggerisce che non c’è equilibrio negli uomini, non c’è l’armonia delle note fra le persone che come goffi pianeti s’incastrano tra loro. La musica continuerà a suonare anche mentre János cammina nella strada deserta fino a scomparire nel buio. C’è solo lei, gli esseri umani non ce l’hanno fatta.
La seconda entrata musicale avviene con l’ingresso di Valuska nel container. Si ripete il contrasto: fuori gruppetti di uomini minacciosi, dentro l’innocente ragazzo a tu per tu con l’essere mastodontico. È difficile dire cosa sia la balena, ma qualcosa mi invita a credere che il corpo offeso dalle cicatrici e il suo occhio esangue siano i sintomi di ciò che gli uomini fanno e hanno fatto con le loro ingiustizie. La balena è un dio martoriato, la carcassa di ciò in cui si credeva e che è stato tradito per seguire la voce di un nano. I riferimenti all’olocausto non sono poi troppo lontani: una popolazione allo sbando, l’assenza di valori, il sopruso che avanza inesorabile. Gli elementi ci sono tutti, insieme a quella musica meravigliosa che si staglia nettamente sulle bassezze della Storia.
La terza apertura è la più dirompente. Anticipata da una lunga marcia ordinata di uomini che sembrano realmente dei soldati, alla quale seguirà la devastante irruzione nell’ospedale che rappresenta uno dei momenti di cinema più crudi da molti anni a questa parte in cui vi è chiaramente un gigantesco vuoto armonico fatto di calci ai ricoverati, mobili e letti fracassati, ecco che dietro una tenda la mdp svela un vecchio uomo nudo, scheletrico, immobile.
In quell’istante la melodia comincia, altissima, sale nei cerchi concentrici del cielo fino ad accarezzare i pianeti solitari le comete scie dorate fra satelliti instancabili, e il cuore, il nostro cuore si frantuma.
L’immagine dell’anziano nudo e indifeso di fronte al male degli uomini ha un potere talmente annichilente da metter ancora di più in risalto la melodia celestiale in sottofondo. E a concludere magistralmente questa indimenticabile sequenza ci pensa il primo piano spaventato di Valuska che nascosto nell’ombra aveva visto tutto. Anche un sognatore come lui sta per arrendersi.
Il quarto ingresso arriva inesorabilmente alla fine. Quando ormai tutto è stato distrutto, tutto. È distrutto l’entusiasmo di János ridotto ad un automa su una barella, è distrutto il container che proteggeva la balena lasciandola ancora più sola di quel che era nella piazza centrale alla mercé di chiunque. La struggente armonia parte da qui, con l’intellettuale Eszter, convinto detrattore di Werckmeister, che si avvicina pian piano alla solitaria balena in mezzo ai detriti. La guarda nell’occhio spento eppure così compassionevole, colmo di pena per quegli esseri umani che l’hanno strappata dal suo mondo per portarla in un regno di scheletri e macerie. In cui non c’è grazia, non c’è logica, non c’è dolcezza, non c’è musicalità.
Nel momento in cui Eszter esce di scena una nebbia sottile fa scomparire la carcassa dell’animale. L’eclissi su questo (sul nostro?) popolo è giunta, il buio è così arrivato. Non ci sarà lo spiraglio di luce sperato da Valuska, resterà solo la musica nei titoli di coda. Libera da qualunque Werckmeister, e infinitamente sopra di noi.