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Le bistecche

Creato il 01 maggio 2011 da Pinaimperato
La cortina della nebbia era calata sul paese antico. Nel silenzio di intima quiete di una lunga sera d'inverno, sul lastrico del vecchio corso Soccini, risuonava lo scalpiccio dei rari passanti imbacuccati e si udivano le amichevoli voci di saluto che si scambiavano. La luce dei lampioni si dilatava come per incanto nel fumo della nebbia. Ogni tanto si sentiva qualche chiave girare nella toppa e un uscio che sbatteva. Le finestre si illuminavano ad una ad una. Maria e la sua mamma erano sole in casa. La mamma era appena tornata dalla macelleria. Aveva comprato quattro bistecche per il pranzo del giorno di festa seguente, e ora le riponeva sul davanzale esterno della finestra della cucina per conservarle al freddo della notte. L'appartamento si trovava in cima ad una ripida scala, al primo piano di un antico edificio, che sorgeva di fianco alla porta medioevale del borgo antico del paese. Il pianerottolo si allungava in un andito buio, in fondo al quale la scala continuava a salire fino al secondo ed ultimo piano dove, in un altro minuscolo appartamento, abitavano Ada e Tullio, venditori ambulanti che giravano per i mercatini dei paesi circostanti con una giardinetta verde scuro stipata di rotoli colorati di tessuti modesti, del cui commercio la coppia viveva. L'appartamento di Maria si apriva alla fine della prima rampa di scale, a sinistra. Da un minuscolo ingresso si accedeva alla cucina e alle due camere, la sala da pranzo e l'unica stanza da letto. Maria era una bimba bruna di cinque anni, dagli occhi vivaci e pensosi ad un tempo. Quella sera giocava con la sua bambola e, come al solito, girovagava inconsapevole coi sentimenti nella confusione dei suoi pensieri infantili. La mamma di Maria era una donna mansueta e saggia. Di statura non alta e dalle forme dolcemente tonde, aveva il volto sempre rischiarato da un franco sorriso, un segno certo del suo appagamento nel dedicarsi all'amorevole cura di quella figlioletta dei cui riccioli bruni era fiera. La signora Giovanna era una donna semplice, ma con il cuore palpitante di sogni da realizzare nella sua bambina.
In quel tranquillo silenzio invernale, madre e figlia se ne stavano intente alle loro occupazioni, in cucina, ognuna per conto suo. L'una si trastullava vezzeggiando la bambola, l'altra sedeva pensosa a rammendare.
La cucina era una stanza quadrata dipinta di celeste. Alla parete opposta a quella nella quale si apriva la porta di legno laccato di bianco era addossata la credenza giallo chiaro, con gli sportelli dell'alzata recanti al centro una specie di ventola fissa, che forse serviva ad arieggiare. Nell'angolo della stessa parete era installato l'acquaio di pietra granitica. Accanto a questo, a destra, due staffe di ferro reggevano una lastra di marmo di Carrara su cui erano poggiati i fornelli. Il vano sottostante era chiuso tutt'intorno da una allegra tendina a quadretti gialli e blu. Sulla parete contigua una finestra rettangolare dalle persiane marroni si affacciava sulla via principale del paese, stretta e fiancheggiata da antiche case di pietra. Guardando a sinistra, si intravedeva la torre merlata del palazzo comunale, la cui facciata era decorata da stemmi marmorei e da una lapide che ricordava che lì si era fermato Arrigo VII di Lussemburgo. Al centro della stanza era posto il tavolo rettangolare di legno laccato come la credenza. Intorno al tavolo , ornato al centro da un vaso di vetro sfaccettato, erano disposte quattro sedie la cui seduta nascondeva contenitori nei quali trovava posto ogni sorta di cianfrusaglie.
Nell'intima quiete dell'inverno, in quella stanza rischiarata dalla luce dorata di una lampadina schermata da un piatto di opaline gialla, si percepiva il sereno appagamento di una comunione di sentimenti. D'un tratto il trillo del campanello fece sollevare lo sguardo della signora Giovanna e di sua figlia. Negli occhi di entrambe si leggeva la sorpresa per una visita inaspettata. Ma, forse, si trattava della consueta capatina frettolosa della signora Fiorenza dell'appartamento accanto, o dell'affettuosa coppia del piano di sopra, Ada e Tullio, che Maria chiamava affettuosamente zio e zia. Zia Ada e Zio Tullio, al ritorno dai mercatini dei dintorni, di sera, erano soliti irrompere gioiosi e non senza un dono gentile per quella bimba che, siccome non avevano figlioli, vezzeggiavano come la loro “piccinina”. La mamma posò sul tavolo il rammendo che aveva tra le mani e andò ad aprire. Maria udì lo scatto del lucchetto nella serratura e il cigolio della porta che si schiudeva nel silenzio ininterrotto. Non risuonarono parole di saluto, né altro. Con il cuore in attesa la bambina si alzò e si avviò nell'ingresso. Sua madre stava immobile e tacita, appoggiata alla porta spalancata. Maria avanzò accanto a lei fino alla soglia. Illuminata dalla luce giallognola della lampada che pendeva dal soffitto grigio del pianerottolo, nel vano della porta, una donna avvolta in uno sdrucito scialle nero tendeva la mano destra alla mamma e con la sinistra stringeva quella di una bimba smunta e triste. Nel silenzio due donne si guardavano negli occhi accanto alle loro creature. <> - mormorò ansiosa Maria - <> - rispose la signora Giovanna con voce incerta e turbata, carezzandole i riccioli bruni.
Maria non comprendeva la parola “zingare”. Ma, mentre le venivano in mente alcune fiabe che la mamma era solita raccontarle, intese il senso di “povere” e di “mendicanti”. Di poveri mendichi ne aveva incontrati tanti in quelle storie! E ogni volta che aveva immaginato quelle scene, era stata colta da un penoso turbamento e dal desiderio di aiutare quelle creature immaginarie. Maria sentì che ora era entrata in uno di quei racconti, e che a lei era toccata la parte della principessa capricciosa, mentre le pareva che la sua modesta casa si trasformasse in uno degli sfarzosi castelli delle favole. Sentì un brivido attraversarla e il cuore palpitare. D'un tratto il tremito si sciolse nelle lacrime d'un pianto irrefrenabile. Sua madre smise allora di fissare le sconosciute e, dopo aver chiuso frettolosamente la porta in viso alla donna, prese a consolare la figliola.
<> chiese Maria tra le lacrime che le carezze materne non sapevano asciugare.
La signora Giovanna china sulla figlia che si stringeva al petto non rispose. Poi, all'improvviso, sollevò il capo, scostò dolcemente la sua piccola e, senza dire una sola parola, si affrettò alla finestra, la spalancò, afferrò l'involto con le bistecche e corse giù per le scale dietro alla sconosciuta che lentamente si allontanava tenendo la sua bimba per mano. Maria la seguì e si fermò sul pianerottolo da dove, in fondo alle scale, oltre la soglia dell'ultimo gradino, si intravedeva la strada. Mentre sua madre consegnava all'altra madre l'involto, Maria sentì su di sé lo sguardo silenzioso dell'altra bambina. I loro occhi si parlarono. Poi, tenuta per mano dalla madre, la bimba si voltò, scomparendo nella nebbia. La signora Giovanna cinse la sua piccola con un braccio e, stringendosela al fianco, risalì pensosa le scale e rientrò in casa. Ora Maria non piangeva più. Lentamente, la sensazione di acuto dolore si attenuò e cedette ad un vago malessere.
Era l'avvertimento di un sentimento indefinibile che la segnò per sempre.
Il mondo dei giochi infantili aveva incontrato per la prima volta quello dell'ingiustizia dei grandi.

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