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Le carriole

Creato il 11 ottobre 2013 da Lundici @lundici_it

Quando apparve sullo schermo Jack Nicholson in una serata primaverile di un’infanzia complicata, eppure arditamente aspirante a una necessaria e fisiologica leggerezza, mi chiesi chi fosse quello strano personaggio che, in un posto dalle pareti bianche e dall’aria oscura, portava sconquasso in un magico cerchio di diversità più o meno accennate.
Quella sera, fu la prima volta in cui vidi “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Il giorno dopo, mio padre sarebbe partito per un viaggio in Grecia, di cui avrei sentito parlare a lungo.

Le carriole

Una scena da “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (“One Flew Over the Cuckoo’s Nest”), un film del 1975 diretto da Miloš Forman.

L’atmosfera goliardica della sala da pranzo, in cui i commensali pregustavano l’ilarità di giornate spensierate e colme di luce e lontane dai ruoli predefiniti di un esistere monotono, non mi distoglieva dal film. Qualcosa ipnotizzava il mio sguardo, portandomi verso mete molto più lontane di quella soglia che mio padre si accingeva a varcare di lì a poco.

Non sapevo all’epoca cosa esattamente fosse un disturbo mentale, anche se qualche amico, nella sua stranezza oltremodo manifesta, mi aveva indotto a prendere atto che i punti di vista di un medesimo oggetto sono variegati e plurimi e che alcuni sono lo sbalorditivo passaggio verso paesi delle meraviglie daliniani e liquidi, verso ancestrali mete poco densamente popolate, ma di rara ricchezza spirituale in un’eventuale e auspicabile evoluzione di strapiombi bui in risalite verso luci di intensità ellenica e carico emotivo euripideo.

Quel film lo rividi molto più tardi. E più e più volte, ritrovando in esso il nucleo sincero di un’idea difficile, quella che ci vede, anche al di fuori di spazi dalle pareti imbiancate e dall’ordine imposto dal caos sancito da una malattia mentale, vittime di esistenze meccanicistiche e dalle identità scialbe ed evanescenti.

Il chiuso ritrovo dei fragili compagni di viaggio di un Nicholson da Oscar, nel candore artefatto di un silenzio prodotto dal blocco del dolore e dalle catene imposte da un’algida infermiera, timorosa della vita vera e delle sfide di paleolitici ritrovamenti di identità intime impensabili, allo straziante subbuglio emotivo di vite spezzate, diviene emblema di rinuncia e ingresso in gabbie che appartengono a tutti nell’istante in cui moti di spirito autentico condurrebbero verso smantellamenti di faziose torri da superbia erette e felicità alchemiche di apertura di rossi canali che irrorano strade mai solcate.

La gabbia degli austeri luoghi di contenimento presunto, meglio di costrizione indotta, di psichiche canne al vento, è la rinuncia a se stessi, alle sfide esistenziali verso ciò che intimamente siamo e per cui siamo qui.

Gabbia, dunque, quale blocco a profondità recondite da cui un grido straziante imporrebbe di fermarsi e lungo le quali si sceglie un’omissione di soccorso a se stessi che non conduce molto lontano. Si opta per il più “carismatico” e ansiolitico ruolo, quello che la moglie, il marito, l’amico, il fratello, il padre, la madre, ci chiedono di interpretare in una fissità di vita dannatamente comoda anche per noi.

Le carriole
La vita che si spegne, nel moto di rivoluzione apparentemente fallito, dell’eroe del film, e sopito con sistemi di disprezzo della dignità umana, è un atto di libertà che l’indiano paziente del centro restituisce a Jack Nicholson nell’evidenza di un prosieguo di vita monca e priva dell’irruente caparbia intelligenza del suo protagonista.

Altro la vita che si spegne dell’amico fragile, nella rinuncia a una felicità fortemente propria e non condivisibile con l’egemonia di un materno che è dio in terra. Gabbia, qui, la morte, che è, però, anche rifugio e soluzione unica alla dolcezza sconfinata e all’ingenuo, quasi irreale, candore di un figlio schiacciato dal potere di chi lo ha messo al mondo e che di una puttana, lungo un’intima via del campo, si innamora per ritrovare se stesso e una purezza sconosciuta alle materne origini.

Quello stesso figlio che, prima di chiudere gli occhi, d’un tratto, si vede vivere una vita che non gli appartiene lungo un cordone ombelicale mai tagliato.

Scriveva Pirandello:”Chi vive, quando vive, non si vede, vive…Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più, la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte”. Nella novella, in cui il drammaturgo siculo concentrava finemente il senso di un percorso di ricerca, che si rivela vano nel mascheramento di identità e nell’adesione a giochi di ruolo e che la psicoanalisi identifica in una costruzione dell’Io, oltre la quale esiste ciò che trascende le umane esistenze, un Sé glorioso e sciolto da categorie di pensiero immobili, un notabile borghese sfoga compulsioni sopite in un gesto all’apparenza insensato.

La carriola fatta fare al proprio cane è l’attimo di liberazione da maschere inadatte a contenerlo, è l’uscita dalla propria gabbia, da un’esistenza in cui più non si riconosce.

Le carriole
A ben guardare, ognuno di carriola ha la propria. Serve a rendere tollerabili vite di conformismo a ruoli precostituiti e di rinuncia a piani più alti. Mio padre e i suoi goliardici compagni di viaggio dovettero trovare la loro in quella vacanza epica.

Consiglio medico: se la libertà vi spaventa, trovate la vostra carriola, ma sappiate che la vita, quella vera, è un’altra storia.

Le carriole
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