Era il 28 aprile del 1794 quando i sardi, affamati e oppressi dissero basta, per un breve momento, al centralismo e alle angherie dei Piemontesi. Dopo il rifiuto del governo sabaudo a rispondere alle cinque domande poste dagli Stamenti (il parlamento isolano), il popolo insorse coraggiosamente costringendo alla fuga i funzionari piemontesi guidati dal vicerè Vincenzo Balbiano. Quelle domande con cui i sardi rivendicavano l'autonomia della Sardegna (si chiedeva, tra l'altro, al governo sabaudo che le cariche pubbliche fossero riservate ai sardi e che fossero istituiti a Cagliari un Consiglio di Stato e un Ministero per gli affari della Sardegna) sono state rievocate ieri mattina al Palazzo Viceregio. Ma per la prima volta dall'istituzione della festa dei sardi nel 1993 il comitato per Sa die de sa Sardigna quest'anno ha voluto unire la rievocazione storica dei fatti del 1794 ad una Messa plurilingua, cantata in sardo, in latino e in italiano dai cori a tenores provenienti da parecchi centri della Sardegna (Bosa, Irgoli, Bortigali) e accompagnata con le launeddas. Ma perché questo connubio tra storia e fede?
Le domande ai sardi
Dal 1993 il Consiglio regionale della Sardegna ha deciso di ricordare i cosiddetti vespri sardi istituendo Sa die de sa Sardigna nella convinzione che quegli avvenimenti sfociati nella insurrezione del 28 aprile 1794 potessero dare un significato alla nostra autonomia e capire perché nel corso della nostra storia questa sia stata spesso proclamata solo a parole, ma sia stata abdicata nei fatti. Il rischio concreto, lo ha ricordato nella celebrazione dell'anno scorso il presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau, è che senza una riflessione profonda questa giornata diventi " una cerimonia imbalsamata e rituale, quasi obbligata ".
Eppure questo apparentemente strano connubio tra storia sarda, fede, liturgia e lingua sarda, preparato da una serie di incontri nati da una feconda collaborazione tra la Chiesa di San Lorenzo a Buoncammino e la Fondazione Sardinia, hanno offerto quest'anno a Sa die de sa Sardigna degli spunti nuovi.
Dio va oltre ogni nostra immaginazione. E' come un impastatore che mescola gli ingredienti stendendo la pasta dal centro verso la periferia. Poi dalla periferia nuovamente ritorna verso il centro, fino a farne un impasto unico.
La politica di Dio è diversa dalla nostra: non distingue tra centro e periferia. Dio non è come noi, che tendiamo ad emarginare chi è lontano dai centri di potere, dai centri di culto o dai centri del consumismo. La politica di Dio è inclusiva quanto mai potrà essere inclusivo il più aperto umanista. Riunisce i popoli, le culture e le lingue, ma nello stesso tempo mantiene intatte le loro diversità. La loro identità.
Questa immagine del Dio impastatore, evocata dal rettore della Chiesa di San Lorenzo monsignor Mario Ledda durante l'incontro intitolato " Dio parla anche ai Sardi, se lo sanno ascoltare ", mi è ritornata in mente tante volte durante la Messa celebrata ieri in Cattedrale dall'arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio (che per uno strano caso del destino è piemontese) su richiesta del comitato per Sa die de sa Sardigna.
Mentre risuonavano i canti gregoriani cantati a tenores mi sembrava di sentire ancora quelle cinque domande, quell'anelito di libertà, di giustizia e di autonomia dei sardi. Ma questa volta le domande non erano rivolte al Governo centrale, che dalla fine dell'Ottocento ad oggi ha ampiamente dimostrato di aver molto poco a cuore le sorti della Sardegna. Quelle domande erano rivolte direttamente a Dio. Esattamente a quel Dio di cui parlava monsignor Ledda il giorno prima. Quello inclusivo, che accoglie tutti.
Insieme abbiamo chiesto una mano di aiuto a quel Dio che ama tutti. Anche chi non gli crede, chi lo bestemmia e chi lo ha ammazzato come il peggiore dei malfattori.
Gli abbiamo chiesto di aiutarci a salvare una terra che ha una enorme sete di giustizia, di inclusione sociale, di equità. Di lavoro e di amore. Gli abbiamo chiesto che ogni nostro impegno, sia esso ecclesiale, culturale e politico, trovi la sua ragion d'essere nella radice cristiana che, volenti o nolenti, ha segnato tutta la nostra storia.
Quelle domande rivolte con semplicità a quel Dio inclusivo, mentre quattro bambini entravano in Cattedrale sventolando la bandiera dei Quattro Mori, interrogano profondamente la coscienza di tutte le persone che hanno davvero a cuore il futuro della nostra terra, che siano credenti o non credenti.
Indicano l'unica strada oggi percorribile per cambiare veramente rotta: quella della verità, dell'onestà e della coerenza.
Quelle domande sono rivolte anche a noi: ci invitano ad essere coerenti, a non fare finta di cantare gli inni di lotta contro la tirannia dei baroni se ancora oggi lasciamo tranquillamente che il potere sia gestito dai baroni di turno: nelle università, negli ospedali, nei tribunali. A non rievocare con enfasi la cacciata delle nobili famiglie piemontesi se ancora oggi ci lasciamo sopraffare dalle famiglie (sarde) più potenti e dalle organizzazioni più o meno occulte che spadroneggiano nella nostra città e nella nostra regione. Se lasciamo ampio spazio alla corruzione e al clientelismo e ci comportiamo come servi e non come persone libere.
Quelle domande ci invitano a non lamentarci perché lo Stato italiano ci taglia le risorse quando non sappiamo utilizzare quelle che abbiamo a disposizione. O addirittura le arraffiamo senza ritegno se solo ne abbiamo la possibilità. Ci invitano a non dire che le raccomandazioni sono una porcheria se riguardano gli altri quando poi telefoniamo all'amico influente per chiedere un favore. Quelle domande ci invitano a non dire che manca il lavoro se abbandoniamo la coltivazione dei campi perché l'Unione europea ci dà i finanziamenti per non lavorarli. Ci invitano a lavorare e lottare con dignità senza cedere alla tentazione dell'assistenzialismo. Ci invitano a non essere servi in casa nostra. Ad essere accoglienti ed inclusivi senza emarginare chi vive alla periferia ed è lontano dai centri di potere, ma nello stesso tempo senza rinnegare la nostra storia e le nostre tradizioni.
Don Mario Cugusi, uno degli organizzatori della manifestazione, spiegando perché il comitato ha deciso di celebrare il 28 aprile con una Messa in Cattedrale, ha sottolineato che Sa Die de sa Sardigna non deve essere una semplice festa: deve essere per i sardi un impegno ad essere migliori e trovare la forza e il coraggio di chiedere giustizia. Ma una giustizia illuminata dalla verità di Cristo.
Sa die de sa Sardigna sarà veramente il giorno dei sardi quando riusciremo a trasformarla nella festa di un popolo che ha finalmente trovato il coraggio per rialzare la testa riscoprendo l'orgoglio della propria identità. Altrimenti sarà solo una rievocazione storica, una cerimonia imbalsamata e rituale. Un pretesto per non fare andare a scuola i nostri ragazzi.
@alessandrozorco