Nel 1967 il regista danese Jørgen Leth diresse un corto intitolato The Perfect Human (qui e qui per vederlo) in cui una voce fuori campo commentava le azioni di un tipo smilzo su uno sfondo totalmente bianco.
Probabilmente se quella sagoma di Lars von Trier non si fosse preso la briga di fare questo pseudo documentario, qui da noi nessuno si sarebbe mai filato né Leth né L’essere umano perfetto. E aggiungo che forse saremmo sopravvissuti comunque.
Ad ogni modo nel 2003, ancora pervaso da un’onnipotenza dogmatica, quel simpaticone di Lars decide di imporre al suo collega cinque vincoli per il rifacimento di altrettanti remake del corto. Ogni vincolo comporta delle costrizioni parecchio impegnative che mettono in seria difficoltà Jørgen Leth: si parte con l’obbligo di girare con scene non più lunghe di 12 frame, passando all’imperativo di ambientare il film nel luogo più povero del mondo, per proseguire nell’assenza di diktat lasciando a Leth totale libertà, finendo con il compito di fare un cartone animato, per terminare nell’estromissione del regista più anziano dall’ultima variazione.
Quella canaglia di Trier, che qui si dimostra altezzoso come sono molti dei suoi film, l’ha pensata davvero bella, almeno in teoria. Le cinque ostruzioni – che da noi sono diventate "variazioni" – comandate al quasi impaurito Leth, diventano un simposio al caviale molto interessante per provare a capire il "fenomeno" Von Trier.
L’operazione era già stata effettuata attraverso modalità differenti con Epidemic (1987), ovvero Trier aveva tentato di esplicitare l’ideologia che sottende la sua visione di fare film, facendosi riprendere mentre… lo fa. Questa volta il regista danese si serve di un collega che pensa e agisce il, e nel, cinema, in maniera opposta alla sua. Leth viene ammonito da Trier per il suo eccessivo distaccamento dal mezzo che gli impedisce di rimanere "segnato", e per l’essere troppo equilibrato ed incapace "di fare una cagata", parole di Lars.
A parte la presunzione costante, vedi l’ultima variazione che è una lettera scritta da Von Trier stesso in cui se la canta e se la suona, comprendo quello che avevo già intuito con i suo lavori precedenti: a lui degli spettatori non gliene frega un emerito cazzo. Cosa si può pensare di uno che è contento se gli è uscita fuori una cagata? No, sul serio ditemi voi. I film che fa sono sostanzialmente il frutto delle sue masturbazioni mentali, e questo non significa che siano cose "brutte" tout court (Dogville anyone?) perché si può avere stile anche nel farsi le seghe, ma di certo non vale la pena arrabbiarsi come aveva fatto il sottoscritto per Le onde del destino (1996), poiché con la vostra incazzatura Lars non si farà altro che una grassa risata seduto sulle comode poltrone della sua Zentropa.
Comunque se la struttura teorica de Le cinque variazioni è intrigante, il mero aspetto formale vive di alti e bassi. Onestamente vedere Leth misurarsi nelle riprese dei suoi film non è particolarmente entusiasmante perché sembra di assistere ad un qualunque making of videoclipparo. L’attenzione invece si cementa quando i due registi dialogano tra loro esternando i propri punti di vista. Oddio, più che altro sembra che Trier parli da un piedistallo dorato ed il povero Leth sia lì ad ascoltare la voce divina, però vabbè, a Von Trier dopo questo film inizio a volergli un po’ bene nonostante tutto, perché ho capito che in fondo è un gran burlone.