Il mio post di alcuni giorni fa, quello intitolato “le dieci cose da non dire ad un (ex) malato di cancro“, ha suscitato molti commenti. Malati ed ex malati mi hanno confermato che le frasi che ho citato sono state dette anche a loro e che li hanno mandati in bestia. Alcuni mi hanno fatto notare che il silenzio è qualcosa che li ha feriti molto di più. In effetti, anche il silenzio può fare molto male. Io, il silenzio, l’ho incluso nella frase “ora che è passato, dimentica tutto” e confermo che è una bella bestia pure quello. Un giorno vi racconterò di quanti danni può fare il silenzio. Quindi, di fatto, alcuni di noi si sono dimostrati più suscettibili, altri sono più tolleranti, ma alla fine della fiera ci siamo trovate più o meno tutte d’accordo.
D’altra parte, chi non ha mai vissuto la mia esperienza, si è chiesto – come prima cosa – se avesse mai fatto gaffes con me. No, tranquilli, nessuno! Dopo di che, alcune persone, una in particolare, mi hanno fatto notare una cosa estremamente sensata e sacrosanta.
Tacere è male. Dire qualcosa può essere male lo stesso. Che deve fare, dunque, un povero disgraziato che ha intenzione di dimostrare affetto e interesse sincero e pulito ad un malato?! Insomma, siamo sinceri: il malato è malato e vabbè, ma anche chi gli sta accanto non è in una bella posizione. Mi riferisco principalmente alle persone più care e più vicine al malato, ma – why not? – anche ai conoscenti, ai colleghi, insomma, a tutte le persone che non sono magari molto in confidenza col malato ma che comunque hanno piacere a fargli avere un messaggio di amicizia.
Cosa fare, dunque? Cosa dire? Come agire? Non lo so. Non ne ho la minima idea perché se le cose che urtano più o meno sono le stesse per tutti, i gesti che fanno piacere sono molto più soggettivi. Il senso di piacere, credo, sia molto più personale e variegato di quello di fastidio. L’olio di ricino fa schifo a tutti, punto e basta. Il gelato al pistacchio non è male, ma ad alcuni piace e ad altri no.
Io, da parte mia, posso raccontarvi alcune cose che mi hanno resa una malata più serena. Alcuni comportamenti che mi hanno fatta sentire come una persona, e non come un cancro. Non li elencherò tutti perché ho scoperto che ce ne sono stati più di dieci e non ve li infliggerò tutti in una volta perché sapete che sono logorroica.
1) E’ stata rispettata la mia volontà di non avere alcun filtro tra me e gli ematologi e tra me e i parenti e amici che dovevano essere informati: ero io a parlare direttamente con la mia ematologa. L’unica volta, prima del ricovero, in cui mamma provò a portarsi via uno dei dottori per parlare con lui in privato, lui la fermò e le disse “Romina è maggiorenne e la malattia è sua. E’con lei che devo parlare. Deve essere lei a decidere se potete esserci anche voi durante il colloquio o se preferisce essere sola e poi riferire a voi”. Mia madre capì e allora io assunsi il pieno controllo dell’unica cosa nella mia vita che potevo controllare: l’informazione a/da Romina. Anche quando questo, come la volta che dovetti dire la verità ai miei nonni, mi ha spezzato il cuore. Lasciare il malato all’oscuro rispetto alla verità non lo proteggerà dalla realtà dei fatti. Lascia solo un casino di cose non dette se le cose si mettono male. E poi, chi veramente soffre per le parole taciute, è chi rimane.
2) Cercare di creare una routine normale sulla base di una realtà completamente fuori dall’ordinario: la realtà del malato di cancro viene sconvolta, squassata, rivoltata completamente. Cambiano le esigenze, la vita quotidiana deve completamente venire riorganizzata in base alle nuove condizioni. Insomma, sapete meglio di me che alle volte già trovare chiuso il proprio bar di fiducia può scompostare una giornata, figuriamoci cosa succede davanti ad una cosa del genere. Riuscire a creare una routine sulla base di questa situazione è fondamentale, perché perdere la propria routine è destabilizzante. E allora ci si organizza. Creare una situazione “normale” partendo da una realtà anormale significa andare al supermercato e comprare le nachos piccanti invece dei Kellog’s perché tua figlia non sente più i sapori, percepisce vagamente il piccante e basta. Oppure, vuol dire organizzare le cose antipatiche e renderle buffe. Io, all’epoca, facevo le punture di eparina un giorno si e uno no. La odiavo a morte. Eppure, direte, prendevo farmaci ben peggiori. Ma un motivo c’è! Mia mamma, all’epoca, da brava cinquantenne aveva problemi di presbiopia e si perdeva continuamente gli occhiali. Li lasciava sempre non si sa dove e quindi, al momento di farmi l’iniezione, non li trovava. Allora, avendo problemi di messa a fuoco che faceva? Disinfettava tutto, dalla spalla al gomito. Si allontanava finché non metteva a fuoco e lanciava tipo giavellotto la siringa. Ogni volta mi ammazzavo dalle risate perché vederla calibrare il lancio era uno spettacolo. E questa era parte della mia routine.
3) Ironia e sfottò, spesso anche umorismo nero: in sei mesi di chemio sono stata sfottuta, derisa, presa per i fondelli, dileggiata, presa in giro e trovatemi voi altri sinonimi. In casa, essendo io il membro più serio e serioso della famiglia già alla tenera età due anni, nessuno si aspettava che io mi sarei presa così poco sul serio vedendomi malata di cancro. Per loro forse fu strano, all’inizio, ma si adeguarono alla mia scelta. Il cancro fa paura? Che se ne rida. Esorcizziamolo. La mia lunga parrucca castana fece il giro di tutte le teste di casa. Venne, infine, requisita da mio nonno, fermamente convinto di averne più diritto di tutti dal momento che erano a dir poco quarant’anni che non provava il brivido dei capelli sulla fronte. Un uomo di 84 anni che indossa una parrucca per fare il buffone per far ridere la nipote è una cosa meravigliosa. L’umorismo nero andava per la maggiore. Più era forte, più era liberatorio. Mia madre, ispirandosi al famoso film di diversi anni fa, mi chiamava “La morte ti fa bella”. Si riferiva al fatto che, rispetto alle condizioni in cui versavo fino al momento della tardiva e patita diagnosi, durante la chemio ero un fiore. Può sembrare un nomignolo orrendo da dare ad una figlia di vent’anni malata di cancro, ma per chi era dentro il meccanismo era normale e liberatorio. Mio fratello, votato a crocerossino all’età di tredici anni, non me ne risparmiò una. Mia sorella anche meno, lasciamo perdere quante me ne hanno dette!! Essere trattato come un impiastro è stato divertente. E non parliamo di quanto si sono divertiti tutti con il mio port-a-cath. Nipotonzolo Numero Uno, che quando si accorse di quel bottone rimase un po’ perplesso e vagamente schifato, si convinse che se lo spingeva poteva farmi cantare tipo juke box. Più che un port, era diventato un’acquasantiera: ci mettevano le mani tutti.
4) “Però. Cancro sì, ma che stile!”: commento di Cugina Kinsella nel vedere tutte le magliette nuove che avevo comprato per coprire il port (che, tra parentesi, era due volte più grande di tutti i port che ho visto da allora) e nel vedermi uscire tutta in tiro per andare a bere una cosa. Quando passi mesi chiuso a casa, vivendo praticamente in pigiama, con un colorito che oscilla tra il grigio e il verde, con le braccia piene di lividi e buchi che nemmeno Kristiane F., con due piazzole di sosta in testa che vanno allargandosi, bhe, è bello sentirsi dire che si fa comunque una certa porca figura nei giorni buoni. Più che una questione di vanità, è, come ve lo spiego? Un punto in più a tuo favore. Una roba da far schiattare anche il più feroce bulky mediastinico! Noterete che tra le cose che mi davano urto c’era la frase “ma come ti vedo bene!”. Non è la stessa cosa? No. Quel che cambia è che la “ma come ti vedo bene” significa negare l’evidenza. Dire che sembri sano. Sminuire. La frase di mia cugina significava “però, sei nel guano fino al collo ma con quale garbo…”
5) “Meno male che c’ha pensato il linfoma a darti una raddrizzata perché non ti si sopportava più!”: sacrosanta frase di mia sorella. Anche qui, può sembrare una cosa bruttissima da dire ma…se una cosa è vera, è vera. Addolcire la realtà serve a poco. Diciamo che in casa nostra non è che siamo campioni di diplomazia. Vi spiego: io avevo tutte le carte in regola – ma questo già da piccolina - per diventare una stronza di prima categoria. Non cattiva, quello no. Ma una noiosa da morire, sempre isolata e arrabbiata col mondo, sarcastica (non ironica, sarcastica), saccente e arrogante. Sì. Giuro. E non era una fase infantile, pre-adolescenziale, post-adolescenziale e semi-adulta che magari crescendo passa. No-no. Ero così. Poi qualcuno, nella fattispecie zio Hodgkin, mi ha fatto presente che avevo sprecato un sacco di tempo. C’è stata una metamorfosi incredibile. E mia sorella me l’ha fatto presente. Io non me ne ero resa conto ed ho preso consapevolezza di quanto era accaduto.