Anna Lombroso per il Simplicissimus
Pare sia fisiologico che i “vessati” cerchino un’evasione dalla galera del “giorno dopo un altro” una continuità sempre uguale rotta solo dall’affiorare di problemi. Pare sia fisiologico che la cerchino lontano dal teatro delle frustrazioni. Pare sia fisiologico che abbiano un’aspirazione di libertà, negli orari, negli abiti, nella scansione dei tempi dell’esistenza.
Ancora di più allora sconcerta che questa licenza dalla quotidianità si cerchi spesso a caro prezzo in festose deportazioni, in esodi più o meno ludici, in fastose “istituzioni totali”, nell’imitazione della realtà dei cinepanettoni, segnati da code e attese in fila per le grandi abbuffate, per le gite, per le animazioni col rischio che alla consolle ci sia un aspirante premier. Con la volontà di consegnarsi, forse, di delegare anche il piacere ad altri secondo regole bonariamente imposte per il nostro benessere, di perdere identità proprio per riconoscersi e unirsi a una folla piccola o grande con la quale cantare il karaoke, unirsi in trenini, ballare la salsa, mettersi cappellini e correre sul ponte per smaltire inusuali brunch. E per cercare in carovana, stipati e sudati, un altrove, un altro luogo in un mondo di primi piani, un mondo visto in immagini nel quale smarrirsi in una lugubre spensieratezza.
Troppo cattivo lavoro si è fatto sulla coesione sociale e sulle comunità non più connesse dalla contiguità fisica, unite solo dalla uniformità virtuale dei mezzi comunicativi, “fuse” dall’ipervelocità virtuale in una comunanza artificiale, frantumata in un’universalità frammentata senza senso o bene comune, che vive solo quando sta sotto l’occhio delle telecamere e nel cuore delle notizie.
Come le cose e i fatti appena le telecamere, i microfoni, i circhi mediatici migrano con i loro apparati e i loro Suv del loro perenne nomadismo, perdono vita e apparenza, così tornati dall’altrove sembra di rientrare, anzi di naufragare nel mare d’ombra consueto dal quale riemergere se si può, l’anno dopo alla prossima vacanza. Per fuggire anche da sé, raccontarsi come non si è, ridere di barzellette scollacciate e perdersi in un giocoso spettacolo che omologa e attutisce pensieri, dolore e aspettative, in una operazione di separazione dal proprio io e dalla “cittadinanza” nel mondo, la stessa che ci incolla al televisore a guardare le vite degli altri, i massacri degli altri, le catastrofi degli altri, le guerre degli altri, con il tintinnare del cubetto di ghiaccio nel bicchiere che copre gli spari.
A vedere le carovane vomitate fuori dalla navi-città che si rovesciano per le strade di Capri o le calli di Venezia, i viottoli di Palma o le stradine impervie di Santorini, immemore di essere la punta affiorata di Atlantide prima dei Maya, viene da dare ragione a chi parla dell’alienazione dello spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato. L’uomo consumatore/spettatore più guarda, più contempla, meno vive e più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno coatto e meno ascolta e comprende la propria esistenza e i propri autentici desideri.
Le “preferenze rivelate” sono ormai solo quelle che ci mostra qualcun altro, dalle suggestioni suggerite che guidano le nostre preferenze e inclinazioni, dichiarando imprescindibile e obbligatorio qualche set per la nostra luna di miele, qualche scenografia per la nostra fuga dalla città, qualche quinta teatrale per il nostro film d’amore, qualche studio nel quale illudersi di appagare bisogni e aspirazioni.
Guardando in televisione gli scampati al naufragio si vedevano le stesse facce che incontriamo in autobus, al bar mentre mangiano un piatto caldo preso coi buoni pasto o da Ikea. Per dir la verità se ne è vista qualcuna così anche nella Cortina dei Suv intervistata dopo la campagna d’inverno degli scontrini. Magari ce n’erano anche intorno a Rutelli e Casini in scampagnata alle Maldive. È che siamo diventati così poveri che per molti la distrazione dalla perdita consiste nell’indebitamento per una fuga effimera. Siamo così poveri, anzi impoveriti che molti scelgono di ritagliarsi la recita di una parentesi di vita “superiore” all’esistenza quotidiana. La nostra è una deprivazione monetaria ed economica sicuramente, ma anche la sottrazione di tanti altri beni che si possedevano e non si possiedono più: l’identità, uno status sociale, un sistema di diritti, l’orgoglio della propria appartenenza sociale, una rete di amicizie, un buon rapporto con il proprio luogo.
E non resta che cercare il proprio luogo altrove, anche solo per un po’, anche a costo di incrementare quella povertà, anche solo in una imitazione della vita bella.