Benedetto Croce
Com’è noto, scomodare Benedetto Croce non era attività da mettersi in essere da chicchessia[1].
Subito dopo l’attentato di Bologna del novembre 1926, un po’ ovunque fu dato libero sfogo ad azioni punitive verso le residenze di noti antifascisti; secondo una dinamica spinosa mai del tutto chiarita, in cui nessuna fonte governativa volle ammettere responsabilità (con grande ludibrio della stampa estera) anche Palazzo Filomarino fu preso di mira, dormiente il Croce. Con vigore fascista il gruppetto di facinorosi riuscì ad entrare puntando dalla finestrella dell’abitazione del vecchio guardiano le rivoltelle in faccia a costui, che aprì loro il pesante portone del palazzo. Ne seguì un’entusiastica distruzione d’un salottino, nel quale i fascisti s’erano infilati non sapendosi orientare nella complessa topografia dell’abitazione: gran fortuna perché di fianco un uscio dirottava nello studio personale del Croce, in cui si trovavano i suoi inediti in diverse fasi di scrittura nonché la preziosissima collectio viciana[2]. Andò invece distrutta una lumiera che, c’informa Fausto Nicolini[3], il Senatore aveva salvata fin lì per sua testardaggine nel non volerne ammettere l’obbrobrio; finalmente il colpo di grazia ne liberò le stanze del palazzo.
Infine gli invasori infilarono il corridoio che, coi suoi 55 metri di lunghezza, servì a stemperare i loro ardori: trovandovi sul fondo un burbero Benedetto Croce che s’era vestito di tutto punto, seccatissimo d’esser stato interrotto durante le consuete sei ore di sonno filato, voltarono senza esitazione i tacchi, e fuggirono, pare dimenticando di porger saluti fascistissimi.
Gli ignoti malfattori apparvero come per miracolo dopo il 25 luglio 1943 in una lista dettagliata stilata dalla questura di Napoli e trasmessa al procuratore del Re, che avviò un procedimento penale al quale essi sfuggirono per magnanimità di Croce stesso, che rifiutò di costituirsi parte civile.
Ma le note attrattive di Palazzo Filomarino erano costante oggetto di brama per i giovani fascisti che si trovavano nei paraggi.
Quando i Littoriali si tennero a Napoli nel 1937, un gruppo di entusiasti decise di porgere nuovo omaggio al filosofo napoletano bussando, stavolta più educatamente, alla sua porta; annunciati, non ottennero udienza dal Croce, il quale reputò altresì utile omaggiarli, al fine della loro formazione, di questo messaggio: «studiate, studiate, studiate».
E com’è ovvio con lo studio Benedetto Croce faceva sul serio, tanto da guadagnarsi l’odio perenne del filosofo Filippo Masci (1844-1922), le cui posizioni neo-kantiane aveva stroncato definendole “inconsistenti”: per farsi benvolere da costui, Croce pensò bene di battezzare in suo onore il proprio gatto bianco e nero Filippo. A tale felino erano concesse tutte le marachelle severamente vietate agli umani; pare, persino, mettersi a giocherellare in biblioteca nel pluteo inferiore con alcuni libri non rilegati. Prendendola con garbo filosofico, Croce sostituì nel pluteo i libri preziosi con comune cartaccia. Ma un divieto vigeva anche per Filippo: banchettare sul tavolo, tentativo che veniva sempre seguito dall’espulsione dal tinello, retto per la collottola da un severo Croce che sentenziava: «Va’ a Patrasso!». Lontanuccio, nevvero, come angolo del castigo? Ebbene, la ragione è che a Patrasso s’era dovuto rifugiare il deputato napoletano Alberto Agnello Casale per certi brogli elettorali.
Poiché nella filosofia vichiana tutto ciò che è attuale, è reale, non è difficile capire che i fascisti avrebbero avuta miglior accoglienza se si fossero potuti rivolgere al vero padrone di casa: purtroppo per loro, messer Filippo, morì prima del trasferimento del filosofo napoletano a Palazzo Filomarino.
- «Mio padre era un uomo profondamente socievole, ma ciò non appariva ad uno sguardo superficiale, ed era anzi smentito da un altro suo tratto molto più appariscente, l’orrore del perdere tempo. Questo orrore, tanto più assolto perché in gran parte disinteressato, giacché egli soffriva non solo del tempo che gli si faceva perdere, ma anche di quello che vedeva perdere agli altri, poneva infatti molti ostacoli allo svolgimento dei rapporti sociali con lui e intorno a lui», cfr. Elena Croce, Ricordi familiari, Milano, Adelphi, 2004 (1a ed. 1979), p. 109.↵
- Tale collezione era contenuta in un armadietto proveniente da una nave ammiraglia napoleonica; cfr. Italo De Feo, Benedetto Croce e il suo mondo, Torino, ERI-edizioni Rai radiotelevisione italiana, 1966, p. 57.↵
- Sono debitrice della conoscenza di Filippo a Fausto Nicolini, Croce, Torino, Utet, 1962.↵