Ora che siamo agli ultimi versi, mi chiedo da dove provenga la mia difficoltà ad entrare nel cuore di quest’opera. Marco Ferrini ne ha sistematicamente commentato ogni parola alla luce della tradizione vaisnava e pur non avendo perso neanche un minuto dei suoi svariati seminari, sento che la mia comprensione è puntiforme, come se avesse aperto degli squarci su un panorama che però non mi appare nella sua interezza, quasi la mia mente non riuscisse a tenere insieme tutti i pezzi del mosaico. Specialmente con quest’ultimo XVIII capitolo, mi son trovato di fronte ad affermazioni che non son capace di assimilare.
Mi sono dato due ordini di spiegazioni.
La prima di carattere emotivo-devozionale che comprende la mia imperfetta sadana, un certo isolamento dal sanga con persone di alto livello spirituale e soprattutto un’incapacità ad entrare nella profondità di quella devozione che trasforma il semplice seguace in un devoto.
Qui non può agire che un rafforzamento del desiderio, immagino.
La seconda invece attiene alla cultura e alla storia moderna che credo di condividere con molta parte dei residenti nell’occidente contemporaneo. Benedetto Croce ha affermato che “non possiamo non dirci cristiani”, intendeva dire che la nostra forma mentis è improntata a dei valori di base che derivano da questa tradizione. Un altro grande intellettuale, questa volta francese dei primi anni del novecento, René Guenon, per quanto convertitosi all’islam dei sufi e trasferitosi al Cairo, era convinto che l’unica vera tradizione dell’Europa fosse il cristianesimo. Non ho gli strumenti intellettuali per verificare questa ipotesi (so per certo che Umberto Galimberti sarebbe in totale disaccordo), ma una delle cose che sempre mi hanno messo in difficoltà (e contemporaneamente affascinato) con la religiosità indiana è il suo ampio respiro mitologico. La dilatazione del tempo e dello spazio nella mitologia indiana è espansa ad un infinito per me inimmaginabile, al contrario il mito cristiano è semplice nella sua linearità. Krishna è un principe potente ed ironico, vive nella più raffinata mondanità, ma è signore del distacco, Cristo, sebbene le cose possano essere andate anche diversamente, ce lo immaginiamo come il figlio di un modesto falegname segnato da un tragico destino terreno. La vita di Gesù la si può trovare nei Vangeli sinottici, ai quali è presumibile vadano aggiunte modeste parti narrate in quelli non accettati dalla Chiesa, le avventure di Krishna sulla Terra sono narrate nel poderoso Mahabharata, sette volte l’Iliade e l’Odissea messe assieme! L’esuberante mitologia indiana stordisce la mia mente occidentale, è un fatto.
Ma c’è una seconda e più recente influenza di cui non credo di essere la sola vittima: lo scientismo. Fu questo un pensiero nato nella Francia della seconda metà dell’ottocento, era imperniato sull’idea che il metodo scientifico dovesse essere applicato ad ogni aspetto della realtà. Per quanto faccia parte dell’antiquariato culturale dell’occidente, questa esasperazione del positivismo è entrata nei capillari più remoti di tutte le discipline e delle ideologie politiche del XIX e del XX secolo.
Io credo che l’intersezione di queste due religioni, una riconosciuta come tale, l’altra no, sebbene ne abbia paradossalmente assunto il valore, ci metta davanti a delle asimmetrie dure da superare.
E qui torno al XVIII capitolo della Bhagavadgita attualmente in discussione finale. Il Canto del Glorioso Signore (questo significa Bhagavadgita), tra le altre innumerevoli verità, ci mostra una società ideale in cui ogni singolo individuo, nascendo con un suo proprio “peccato originale” (karma), dovrà collocarsi in uno dei quatto comparti sociale a lui consono per raggiungere la liberazione dal ciclo delle morti e delle rinascite (samsara), sbagliare la collocazione significa ritardare ulteriormente l’uscita dal samsara e provocare tensioni nella società.
La difficoltà più o meno conscia per noi occidentali sta nel fatto che si trattasse della tripartizione medioevale oratores, bellatores e laboratores, della discriminazione tra aristocratici e plebei o delle classi capitalista e proletaria, abbiamo sempre riconosciuto queste divisioni come un’ingannevole ideologia a copertura dei più tristi abusi dei prepotenti sui deboli. Non è un caso che John Locke, inglese e fondatore del liberalismo, nel XVII secolo parla della mente umana alla nascita come una tabula rasa. Il cristianesimo prende in cura gli ultimi, i diseredati, i poveri, i perseguitati, salvo trasformarsi rapidamente nel suo contrario, ma l’idea originaria rimane e gli appelli alla povertà e alla purezza per raggiungere il regno dei cieli, seppure bellamente disattesa dall’alto clero, erano e sono il fondamento del mito cristiano ancora oggi.
Oltre ad una difficile integrazione della maestosa mitologia vedica, vi sono dunque delle idee provenienti sia dalla tradizione cristiana che dall’impetuoso sviluppo tecnico scientifico della seconda metà dell’ottocento e di cui ancora oggi ci nutriamo anche senza rendercene conto, ma così ben radicate nell’immaginario collettivo occidentale che a mio parere, se non vengono messe a video, interferiranno sempre con una schietta comprensione di questo universo esoterico che è la tradizione vedica e puranica dell’India classica.
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