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Riprendo da dove terminava il post qui sotto con un grafico che dà misura di quanto sia realmente consistente il 40,8% del 57,2%: al netto dell’ubriacatura di chi vi troneggia in cima, non supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto. Da lassù si ha pieno diritto di guardare in basso con soddisfazione, è ovvio, perché chi diserta le urne rinuncia a darsi rappresentanza, ma con ciò la massa degli astenuti non scompare, né perde rappresentazione, che giocoforza è inintelligibile nei tratti, ragionevolmente da ritenere contraddittori: perde forma, ma non mole. In questo caso, ha toccato il 42,8%, che fanno circa 20 punti percentuale in più di quanto è andato al Pd, con una mole pari a circa 21 milioni di aventi diritto al voto, poco meno della somma degli elettori che hanno votato Pd (11.203.231), M5S (5.807.362) e Fi (4.614.364).Per chi considera l’astensionismo un segno di malessere sociale, può esserci consolazione nel constatare che l’Italia resta, come è sempre stata, tra i paesi europei che conta una delle più alte affluenze al voto, ma è un confortarsi che deve fare i conti col fatto che nel raffronto con le precedenti Europee del 2009, quando gli aventi diritto al voto erano 49 milioni, come lo erano stavolta, la percentuale di astenuti aumenta di oltre 7 punti (3,5 milioni di votanti in meno). E tuttavia il dato merita l’attenzione anche da parte di chi non voglia considerarlo come indicatore di un disagio, ma come il segno di un progressivo adeguamento dell’elettorato italiano alle consuetudini elettorali di paesi in cui da sempre l’astensionismo è ben oltre il 50%: pur concedendolo, la progressione mostra una flessione mal compatibile con un processo fisiologico bilanciato da altri fattori.È il non tenere conto di questi elementi che gonfia a dismisura il risultato indubbiamente positivo del Pd, oscurando la solare evidenza che in assoluto e in percentuale l’avanzata più rilevante è quella degli astenuti, che non fanno un partito, com’è nel pigro lessico giornalistico di quando il dato non è oscurato, ma mole sì, e mole di umori, se non di ragioni, che s’aprono a ventaglio dal più strafottente dei qualunquismi alla più argomentata sfiducia nel metodo democratico. Se è possibile un minimo di accordo su quanto fin qui detto, non dovrebbe essere difficile trovare insieme la via d’uscita dall’asfittico scenario in cui si muovono le analisi a caldo sui risultati di queste Europee. Analisi che tengono conto solo dei cambiamenti, pur notevoli, che in seguito ai risultati conseguiti dai partiti si vanno già chiaramente profilando per dare nuovo assetto al quadro politico e istituzionale. Anche condivisibili, dunque, ma che sembrano non tenere in alcun conto che nella società nessuna massa è interamente inerte, neppure quando sembra abbia deciso d’esserlo irrevocabilmente: se non prende voce attraverso i rappresentanti che una pur ampia e variegata offerta le mette a disposizione, non per questo tace. Anche quando silenziosamente dispera o silenziosamente cova rabbia, lasciando il campo a chi nella speranza e nella pacatezza cerca, e perfino trova, l’ultima spiaggia del comune naufragio – anche quando le dettagliate indagini sui flussi elettorali ce la ridanno come ciò che è andato perso nell’incrocio di traslochi che spostano consenso da una casa all’altra – una massa di oltre 20 milioni di individui, prima o poi, trova modo di farsi sentire. E più tardi lo trova, meno è bello.Sullo scena nella quale si muovono gli attori scelti dal 57,2% degli italiani che sono andati a votare grava un fantasma che ancora non ha trovato corpo, faccia e nome. Le millanterie meno colpevoli che hanno cercato di esorcizzarlo nel corso della campagna elettorale sono destinate ad avere ancora corso corrente di là dal valore che hanno acquistato o perso a scrutinio completato: intendo dire che mostreranno forza diversa rispetto a prima, ma non potranno che conservare il segno. Matteo Renzi non potrà far altro che sbattere le alucce sotto il bicchiere, dando a vedere un formidabile attivismo che sarà lo stesso correre da fermo che fin qui l’ha fatto sudare. Non è escluso faccia qualche passetto, il necessario per illudere se stesso e la platea che è ennesima reincarnazione di quel decisionismo che gli italiani implorano e deplorano, nello stesso tempo. Beppe Grillo cercava di farci intendere che raffrenava l’irrefrenabile smania di assalto al Palazzo incanalandola in un progetto di società dai sogni dorati e dalle aspettative sobrie: dinamo e accumulatore, nei proclami, ma il messaggio subliminale lo dipingeva come un parafulmine. Non è stato creduto o forse lo è stato fin troppo, ma o torna a casa, come aveva promesso, o non potrà far altro che cambiare scatola al prodotto, sempre lo stesso. In quanto a Silvio Berlusconi, gli ossimori del moderatismo eversivo e del fancazzismo demiurgico gli si sono rotti in mano, non hanno più nulla della contraddizione che muove le cose dal di dentro e fanno solo diagnosi di stato confusionale. E tuttavia conserva forze da mettere sul tavolo.Non riuscire a vedere come queste tre vie obbligate non siano altro che i tre lati dell’incavo in cui defluirà la frana, più che stupirci, dovrebbe deprimerci. Metti caso che dall’abbatterci dovesse sortire finalmente la presa d’atto che Renzi, Grillo e Berlusconi altro non sono che tratti della stessa caricatura – e in essa potessimo riconoscere la tanto vantata peculiarità italiana – e finalmente liberarcene – vabbe’, come non detto, ci resta sempre lo stramaledire i tedeschi.
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