Le donne e lo sport sono un binomio incompiuto.
Certamente ci sono atlete che praticano sport, raggiungono risultati importanti, fanno record impensabili; in Italia alle ultime olimpiadi sono state le donne a portare a casa risultati e medaglie.
Però non ci sono donne nelle posizioni di comando, non ci sono donne allenatori, non ci sono donne preparatori atletici, e ci sono pochissime giornaliste che scrivono di sport.
Ed è un peccato.
Quando le donne scrivono di sport hanno una marcia in più rispetto agli uomini, vedono significati che vanno oltre la semplice telecronaca di un evento; raccontano anime e sentimenti, colgono sfumature ed incrinature e li sanno raccontare benissimo.
Sono andate alla scuola di Gianni Brera ma non hanno cattedra.
Già qualche tempo fa avevo riportato un articolo di Concita De Gregorio sulle olimpiadi di Atene ed oggi voglio riportarvi un articolo di Emanuela Audisio sui mondiali di calcio del Sudafrica.
La resa del capitano
Il capitano scambia la maglia con Smeltz. E quello se ne va con l’aria di torna a casa con uno scalpo.
La metterà in salotto, dove si tengono le teste di chi un giorno fu re, come ricordo di un giorno eccezionale.
Il paese che ha appena 25 giocatori professionisti di calcio non va a fondo con l’Italia che ne ha 3.451.
La maglia del capitano Fabio Cannavaro sarà la prova che il pareggio tra Nuova Zelanda e Italia non è una favola, ma realtà.
E che il capitano che quattro anni fa alzò la Coppa da gladiatore ora è un leone spelacchiato, che non fa nemmeno finta di aprire le fauci.
E’ lui che al 7’ perde l’equilibrio e con la coscia passa la palla a Smeltz che segna.
E lui che quando corre a riprendere la posizione inciampa non una, ma due volte. E’ lui che invece di anticipare, crolla a terra, è lento, in ritardo, con la cautela che hanno i vecchi quando escono dalla vasca da bagno e tentano di aggrapparsi alla prima cosa che hanno vicino.
Al capitano scappano tutti gli avversari, gli sgusciano via, prova a riacchiapparli aiutandosi anche con le cattive maniere e all’82’ gli va via anche il dilettante Wood che rischia di segnare.
La fascia nera che anche il capitano porta in memoria del grande Rosato sembra il segno del suo lutto personale.
Era bello il capitano quando sembrava un giovane Achab che svettava imperioso sulla difesa azzurra e quando i suoi sguardi spegnevano ogni audacia degli avversari.
Lui era lì: dirigeva, ammoniva, approvava, accompagnava fuori area la palla.
Da applausi, sempre.
Una sicurezza, una cerniera che improvvisamente si alzava e chiudeva ogni speranza.
Voi che cercate di entrare verso la porta azzurra, smammate.
Ora il capitano è sempre in difficoltà, inciampa in se stesso, paga dazio all’età, ai 37 anni, ogni volta che si muove sembra il presagio di un dolore ulteriore.
Perfino gli occhi sono cambiati.
Fingono sicurezza, ma si chiudono appena il tormento si avvicina.
Hanno l’impotenza di chi riesce ancora a vedere, ma non può più intervenire.
Anche contro il Paraguay mentre quel caprone di Alcaraz volava in alto e inzuccava il suo primo gol in nazionale, nello sguardo del capitano, piantato a terra, c’era un lampo che si spegneva.
Un che di lascivo, di abbandono, come chi saluta una nave che va e ti ha lasciato a terra.
Per ritardo tuo, che manco il fischio alla partenza hai sentito.
I vecchi pugili non invecchiano quando non vedono più arrivare il colpo, ma quando non hanno più le gambe per schivarlo.
Dispiace per il capitano, che è tra i pochissimi giocatori a salutare per primo.
E perché è tra i pochi che viene dalla pallastrada napoletana, figlio di Pasquale, stopper di piazza Concordia, mastino classe 1946, terrore di tutti i vicoli.
Dove non c’è la sabbia di Copacabana e la rovesciata dolce, ma l’asfalto, la pietra lavica, l’assist del marciapiede.
Dove lì Pelè non lo puoi fare, perché se sbagli il dribbling ti accoppi un piede, e se toppi il rilancio, finisci in cattedrale.
Del capitano con la testa rasata ti fidavi, perché le sue prime porte erano state quelle con le inferriate delle chiese sconsacrate e i bidoni della spazzatura servivano da pali.
Perché nei vicoli di Napoli si gioca anche in notturna sotto la galleria Umberto.
E’ chiaro che quei tiri lì poi ti portano a vincere in una notte di Berlino.
Il capitano ha moglie, tre figli, e i loro nomi tatuati sulla pelle, nel prossimo campionato andrà a svernare tra gli sceicchi di Dubai.
Dice: “il loro gol è una casualità hanno messo questa palla in area che è stata deviata, me la sono trovata addosso, l’ho toccata, forse era anche fuorigioco. Peccato, lavoriamo in fase difensiva e alla prima occasione ci fanno gol. Non cerchiamo colpevoli, siamo una squadra.”
Va in tv, ha un battibecco coi giornalisti, respinge le accuse: “volete processare me? L’altra volta non era il mio uomo e si è detto che lo era, questa volta il pallone mi è finito contro. Se vi serve un colpevole, allora eccomi”.
Il capitano è ancora favoloso solo nello spot con Droga, quando fa una rincorsa pazzesca e sulla linea di porta salva in rovesciata un gol per cui l’Africa già esulta.
Allora parte il jingle di Bobby Solo che canta: “c’è Cannavaro, c’è il capitano”.
C’era.
Ora c’è solo un ostaggio.
Smeltz se ne torna in Nuova Zelanda con il suo scalpo.
Un paese con quattro partecipazioni mondiali che pareggia con quello dei quattro titoli mondiali.
E mette a sedere il re della sua difesa.
Che favola.