Nell’ultimo post (Il neotrasformismo passivo: il berlusconismo), ho abbozzato, utilizzando categorie gramsciane, alcuni spunti interpretativi per analizzare il fenomeno del berlusconismo. In quello scritto sostenevo che il berlusconismo sia una sintesi di elementi appartenenti alle due forme di «rivoluzione passiva» teorizzate da Gramsci, vale a dire, il “fordismo” e il fascismo. Tuttavia, il riferimento alla categoria gramsciana ha bisogno di un ulteriore chiarimento ed approfondimento. Gramsci aveva mutuato il concetto di «rivoluzione passiva» da Vincenzo Cuoco che se n’era servito per caratterizzare la rivoluzione napoletano del 1799. Nel corso della sua riflessione carceraria, Gramsci lo arricchisce concettualmente, tale da farlo diventare uno dei concetti più complessi dei Quaderni del carcere. In estrema sintesi, si ha un processo di rivoluzione passiva ogni qualvolta una delle due parti antagoniste riesce ad assorbire o da assimilarsi l’altra parte sino al punto di svuotarla nei suoi contenuti e di guidarne la direzione. Tale processo di assimilazione può avvenire progressivamente, vale a dire a piccoli passi o “molecolarmente”, oppure in maniera massiccia, vale a dire assorbendo interi “gruppi sociali” e politici.
Applicandolo alla realtà attuale, ho apportato delle modifiche sostanziali al concetto strategico gramsciano, e ho preferito usare il termine “trasformismo passivo” (preceduto dal prefisso “neo” per distinguerlo da quello storico), anziché quello di “rivoluzione”, in quanto quest’ultimo richiama un’epoca di sconvolgimenti politico-sociali spesso accompagnato da una fase cruenta e violenta. L’aggettivo “passivo” resta fisso al suo significato teorico, in quanto si richiama a un processo “subìto”, a cui non si è saputo opporre una resistenza adeguata. Potrei anche parlare di una “trasformazione passiva” della realtà sociale del nostro paese, e contrapporla a una “trasformazione attiva”, nel corso della quale i processi, anziché subirli passivamente, vengono attivati dagli stessi gruppi e attori sociali. Dietro ognuna di queste trasformazioni esiste un disegno o un progetto della società che si vuole realizzare. La trasformazione passiva mira a “imporre” (e quindi a conservare e a perpetuare) la propria posizione di dominio in tutti i gangli vitali della società, allargando il “divario” economico-sociale tra i ceti sociali, mira insomma ad allargare la distanza tra le proprie posizioni dominanti e quelle subalterne. Questa trasformazione passiva può essere imposta “coercitivamente”, tramite ad esempio un rafforzamento dell’apparato repressivo (in questo caso si ha una vera e propria dittatura o regime autoritario), oppure può essere realizzata attraverso un “consenso” generale o “spontaneo”. In questo caso secondo i gruppi economico-sociali esercitano sul resto della società una forte pressione persuasiva ed attrattiva, tale da “convincere” spontaneamente i ceti subalterni ad aderire al loro disegno politico-sociale. Pertanto, questi ceti si lasciano molecolarmente assorbire dal disegno “proposto” sino al punto di considerare quasi del tutto naturale le disparità socio-culturali predicate da quel disegno. Una trasformazione attiva, invece, dovrebbe operare nella direzione opposta, vale a dire dovrebbe essere in grado di disegnare una assetto della società in cui le disparità sociali, appunto, il divario tra gruppi dominanti e subalterni, insomma le distanze socio-culturali dovrebbero essere gradualmente eliminate anziché allargate.
Queste sono in estrema sintesi i due tipi di trasformazioni sociali che si possono mettere in atto. Se leggiamo un rapporto dell’Ocse, ci dice che in Italia dalla metà degli anni Ottanta ad oggi, la diseguaglianza sui redditi da lavoro, risparmi e capitale si è aggravata del 33%: «Tra i 30 paesi Ocse oggi l’Italia ha il sesto più grande gap tra ricchi e poveri». Il rapporto riconosce che sono state adottate delle contromisure: «L`Italia ha in parte colmato il crescente gap tra ricchi e poveri aumentando la tassazione sulle famiglie e spendendo di più in prestazioni sociali per le persone povere. Sorprendentemente, l`Italia é uno dei tre soli paesi Ocse che ha aumentato la spesa in prestazioni rivolte ai poveri negli ultimi dieci anni». Ma i dati nudi e crudi restano allarmanti: il reddito medio del 10 per cento degli Italiani più poveri è circa 5000 dollari, tenuto conto della parità del potere di acquisto, quindi sotto la media Ocse di 7000 dollari. Il reddito medio del 10 per cento più ricco è circa 55000 dollari, sopra la media Ocse. «I ricchi hanno beneficiato di più della crescita economica rispetto ai poveri ed alla classe media». Secondo questo rapporto dell’Ocse, il divario tra “ricchi” e “poveri” anziché diminuire è cresciuto ancora di più. Questo per limitarsi a un solo indicatore. Il che mi fa dire che negli ultimi decenni abbiamo assistito a un processo di “trasformazione passiva”, a un processo durante il quale le disuguaglianze e le differenze si sono rafforzate anziché indebolirsi.
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