Posted 22 ottobre 2012 in Medio Oriente, Slider with 0 Comments
di Matteo Zola
Si sa che un presidente in guerra lo si vota più volentieri, è sempre stato così negli Stati Uniti d’America che il 6 novembre prossimo torneranno alle urne per eleggere l’inquilino della Casa Bianca. Come tutti sappiamo, Barack Obama si trova a sfidare Mitt Romney, e sono due americhe a confrontarsi ma anche due possibili futuri.
Due americhe: l’una che decide di guardare la realtà in faccia, la crisi non solo economica, accettando un ruolo ridimensionato (pur preminente) nello scenario politico internazionale. L’altra che chiude gli occhi, che afferma contro ogni evidenza contraria la superpotenza americana e rilancia una politica estera aggressiva. La vittoria di Romney sarà la vittoria di un’America di pancia, quella di Obama di un’America di testa. Dopo il voto si conosceranno meglio i destini siriani. E avanziamo qualche ipotesi.
Gli errori di Obama in Siria sembrano essere quelli di sempre a marca americana: armare gli estremisti islamici per rovesciare un regime avverso, sulla falsariga di quanto avvenuto in Afghanistan. Ma da quell’esperienza Washington qualcosa ha imparato e il sostegno all’esercito libero siriano è tiepido. Certo, da parte americana si consente il rifornimento di armi tramite la Turchia, certo i ribelli sono stati debitamente addestrati, certo ci sono “osservatori” in Siria. Ma quel che preme è mantenere una situazione di stallo, di equilibrio con la Russia, alleata ad una Siria che rifornisce di armi sofisticate. La via d’uscita da questo stallo sarà, se vincerà Obama, in un tentativo di dialogo politico. Un accordo con Putin, insomma. Se dovesse vincere Romney c’è da attendersi un maggiore impegno a stelle e strisce contro una Damasco che è considerata la chiave per far cadere il regime di Teheran.
L’errore più grande dell’amministrazione Obama è stato quello di credere nella rivolta (in principio pacifica) dell’opposizione ad al-Assad, una rivolta forse finanziata e sicuramente “favorita” da Washington. Una “rivoluzione” che, dopo i primi morti, è stata “scippata” dai salafiti e dai wahhabiti, inviati dall’Arabia Saudita, alleata non troppo fedele di Washington. Il rischio, quindi, è oggi quello di finanziare l’estremismo islamico finanziando la rivolta contro al-Assad.
Solo dopo il 6 novembre sapremo se questa previsione è azzeccata, se l’America deciderà di diventare protagonista dell’ennesimo conflitto mediorientale o se più saggiamente negozierà con il Cremlino una via d’uscita. A questo pasticcio d’interessi va sommata la scarsa credibilità degli Stati Uniti come “esportatori” di democrazia: le opinioni pubbliche arabe sanno benissimo che, fino a ieri, la democratica Washington non ha esitato a sostenere i vari dittatori che, fino alle cosiddette “primavere”
, hanno governato col pugno di ferro quei Paesi. Una consapevolezza che certo non si tradurrà in consenso nei confronti dei “liberatori” ma che, piuttosto, potrebbe saldare la popolazione ai gruppi integralisti.Il conflitto intanto si allarga al Libano, lambisce Turchia e Giordania, preoccupa Israele, e occorre trovare in fretta una soluzione. L’eventuale accordo con Putin al fine di individuare una via d’uscita dal conflitto sarebbe il riconoscimento di una potenza americana in fase calante. Un declino appena abbozzato in un mondo, ad oggi, ancora unipolare ma in fase di transizione verso il multipolarismo. Se invece gli Stati uniti, con Romney o con Obama, dovessero intervenire direttamente in Siria e (chissà) in Iran, non farebbero altro che accelerare il loro declino andando incontro a una probabile sconfitta o, quantomeno, a una vittoria senza tornaconto.