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Le figlie del Sole, spettacolo e mito

Creato il 18 ottobre 2014 da Tanogabo @Otello35282552

Riprendo un vecchio e significativo post pubblicato nel 2008 su Sfruttiamo il web

Riceviamo e pubblichiamo: 

Le figlie del Sole è l’ultimo spettacolo della stagione 2007-8 del Laboratorio Teatrale dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria. E’ stato Karol Kerenyi, lo studioso junghiano della mitologia greca, a riunire con questo nome le cinque figure femminili di Pasifae, Arianna, Fedra, Circe e Medea. Un gruppo che a sua volta si può dividere in due sottogruppi; Pasifae e le sue due figlie, Arianna e Fedra, nel cui mito sono evidenti le tracce della cultura cretese e della rappresentazione del Sole come toro solare: mentre Circe, sorella di Eeta, è legata da vincoli famigliari (è la zia) con Medea. I miti solari evocano i miti cosmici della natura e dell’origine del mondo. Partendo dalla notazione ironica che in tedesco Sole è femminile e Luna è maschile (e che per gli antichi Egizi il Cielo era femminile e la Terra maschile), la coppia Urano – Gaia e soprattutto la castrazione del padre Urano per mano di Crono ci conduce al nucleo dello spettacolo. Che vuole parlare non di cielo e di terra, e nemmeno del Sole che ogni notte giace nel grembo della Terra, ma di matriarcato e patriarcato. La fine del matriarcato coincide con la fine di un’immagine ingenua del cosmo, in cui la generazione apparteneva esclusivamente alla natura, la natura era la madre di tutti e non c’era nessun padre. Più o meno nello stesso tempo in cui si comincia a pensare che il Sole, quando scompare alla nostra vista, non s’immerge nel grembo della Terra, ma resta – anche non visto – in cielo. Nel nucleo più antico compaiono mostri (il Minotauro; o il mostro marino che uccide Ippolito), e ci si può accoppiare – tanto grande è la forza generatrice femminile – con gli animali e persino con l’inorganico. Il nucleo più recente (e dunque più lontano dalla totalità matriarcale) pone in primo piano la forza di seduzione della donna, avvertita però come magia pericolosa ed ostile (Circe, ed anche Medea), ed il conflitto anche distruttivo tra i due sessi (Medea).
Raccontare quest’insieme di storie era possibile solo in una cornice insieme estraniante e fortemente simbolica. Abbiamo perciò immaginato le cinque Eliadi come cinque ragazze, magari un po’ retrò, più degli anni Cinquanta che dei giorni nostri, in costume da bagno, occhiali scuri, grandi cappelli, intente a spalmarsi l’olio abbronzante sui propri lettini, qualcuna aiutata dalla propria nutrice. Ma la spiaggia in realtà è una pista da circo, con tanto di domatore, domatrice che fa continuamente schioccare la frusta (riprendendo l’idea base di uno spettacolo di Marilù Prati del 1999, Chiamami Mae West), musiche di Nino Rota e l’atmosfera felliniana – tra onirica ed autosatirica – che immediatamente evoca. Ciò che vediamo e ciò che ascoltiamo, l’immagine e la parola, non coincidono perfettamente. L’immagine non corrisponde sempre a quello che ci aspetteremmo, come nella trilogia di Mozart-Da Ponte messa in scena da Peter Sellars, il regista più famoso del teatro universitario dei campus americani, e poi portata con fortuna in Europa. Se il Don Giovanni diventa una storia metropolitana di gang nere americane: Teseo, Giasone e Ippolito possono ben essere rappresentati come muscle boys di una spiaggia di Venice, California, dediti ai pesi per aumentare la visibilità dei propri muscoli.
C’è uno scopo più sottile del manierismo colto e del gusto della citazione, in questa scelta di regia. La distanza che ci separa dai testi di Omero, Euripide, Apollonio Rodio è ancora (e di molto) maggiore di quella che separava Euripide dai tempi del matriarcato. Oggi viviamo nella società dei mass media, dell’apparire e del mostrarsi, del narcisismo dell’abbronzatura perfetta. In qualche modo anche la lotta tra i sessi, quella tra Giasone e Medea come quella tra Teseo e Arianna o tra Ippolito e Fedra, perde di valore simbolico ed acquista un valore rappresentativo al limite dell’ornamentale. L’impero delle passioni si trasforma nell’impero dell’apparenza: forse il gruppo chiuso di Ippolito e dei suoi cacciatori, dediti al culto della caccia e della gelida Artemide, è oggi il modello di comportamento più accettato socialmente. C’è sicuramente, comunque, una differenza di genere tra l’astratta indifferenza di Ippolito, l’opportunismo politico di Giasone, ed il potere regale, di cui Teseo è per definizione l’emblema, ed il gruppo delle Eliadi. Queste potrebbero cantare, con la voce di Edith Piaf, come commento delle loro storie, rien, rien de rien/ non, je ne regrette rien, perché è la passione –l’impossibilità di agire diversamente- ad aver mosso i loro comportamenti.

Reggio Calabria, 26 maggio 2008

  Marilù Prati e Renato Nicolini 


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