Prima di Lullaby to my father, c’è la madre. Madre terra, Israele, simboleggiata dal monte Carmelo, luogo di ‘nascita’ di Amos Gitai, icona geologica-storica di ‘terra promessa’, di un latte e miele macchiato nel sangue, marchiato da un senso di colpa storico geneticamente connesso ad una terra ‘dovuta-ardentemente desiderata’. Madre-donna-ventre di origine, Efratia, la donna che ha partorito Amos, sua prima corrispondente epistolare, che nelle lettere che amava scrivere e conservare ha impresso pezzi di memoria e di storia privata e pubblica.
“Efratia, come molte donne della sua generazione nate nella terra d’Israele, non è una donna della diaspora. Non è neanche israeliana. Israele non esiste ancora. Questa generazione sta creando la sua appartenenza. Efratia ha scritto lettere tutta la vita. Molto presto, le ha conservate, come per trattenere dei momenti della sua storia, come se nell’intimità s’incarnasse il destino di questa terra”. A. G.
Carmel (2009) è una visione mentale e spirituale che vede sovrapporsi, scambiarsi, coesistere passato e presente, intimità e storia dentro un flusso ininterrotto pur con strappi, ingolfature, zavorre. Gitai si è posto un obiettivo ben più complesso, questa volta: dare prevalenza alla parola, farla divenire immagine monopolizzandola nel parlato, nel letto, sovrapponendola, acutizzandola. La parola racconta l’assedio di Gerusalemme nel 70 d.c. ad opera di Tito e del suo esercito e il sacrificio degli ebrei, dentro un visivo contemporaneissimo ed abbagliante (la porzione più avanguardista dell’attuale evoluzione del cinema di Gitai) fatto di sovrapposizioni di piani, modernizzati-approfonditi da un occhio in 35 mm che diviene quasi un 3D, evanescendo il panorama e le figure in costume in esso contenute, che si dissolvono nello spazio per far posto alle successive, acquisendo potenza immedesimatrice attraente e carica di verità. La lingua sovrasta, staccata, ed espande tutta la sua potenza evocatrice nell’aramaico dei combattenti, mescolato con il francese moderno e fuoricampo di Jeanne Moreau, l’italiano di Enrico Lo Verso che annunciano il racconto della distruzione di Gerusalemme di Flavio Giuseppe, scrittore storico di origine ebraiche al tempo di Vespasiano. Quella stessa terra immutabile nel tempo non ha mai cessato di essere battuta all’insegna della conquista fino all’arrivo dell’esistenza di Amos, che ha condiviso il sangue e l’oscillazione tra diritto e colpa di un popolo apolide agli occhi degli uomini, ma non a quelli di Yahweh.
“Qui si racconta la vita di una donna, Efratia, mia madre, le sue riflessioni intime e le sue fragilità di giovane donna, la sua sete d’indipendenza, le appassionate dispute con il padre sul destino del suo paese, l’amore, il culto dell’amicizia e della maternità, i dolori, la vecchiaia, i momenti di difficoltà. Sento ancora la sua voce, l’ebraico arcaico che voleva che i suoi figli parlassero, un ebraico moderno, dei nostri tempi.” A.G.
L’intreccio tra madre terra Israele e madre Efratria nutre la giovinezza di Amos e la sua crescita, rivelata dalle epistole rievocate sia attraverso le immagini di una donna (incarnata nella seduzione e libertà che Keren Mor esprime egregiamente) dallo sguardo lungo ed espanso, profondamente legata all’Europa e alla cultura, sia per eccessiva declamazione indiretta/isolata di epistole, poesie, di un ‘verbo’ che abbonda… Ciò che l’immagine ricongiunge e tesse, cercando di armonizzare ondulazioni temporali, spaziali, incursioni in pezzi di vita propria e storica insieme (come nella ’lezione-impostazione’ di una scena riguardo l’abbattimento dell’elicottero che trasportava il giovanissimo regista durante la guerra del Kippur) dentro una memoria individuale e collettiva, la parola invece pare spezzare, separare, ridondare dentro un gioco estetico sfociante in un manierismo fine a se stesso in parecchi momenti . Quando invece è un elemento che occupa il suo spazio, non sovrastandolo-monopolizzandolo, allora ‘il verbo’ diviene parte del flusso, conferendogli più forza di significato: emblematico il dialogo-monologo che il regista instaura con un vecchio amico in un garage-pompa di benzina (luogo d’incontro di Amos con suo figlio soldato israeliano). Le due voci di Israele e Palestina non sono mai state così armoniose nella loro distanza e nella rispettiva dissonanza, tra ragione e torti, con un fondo di verità appena palpabile e difficile da districare pienamente.
Scena che condensa l’antico e il moderno, tutta la lunga vita di Israele e la sua impossibile (forse) parola fine al cammino di un popolo, in cerca di una terra dove sostare, a tutti i costi.
Maria Cera
Carmel
Titolo originale: Carmel
Nazione: Israele, Francia, Italia
Anno: 2009
Genere: Drammatico
Durata: 93′
Regia: Amos Gitai
Cast: Keren Mor, Efratia Gitai, Keren Gitai, Ben Gitai, Makram Khoury, Amos Gitai
Produzione: Agav Films
Scritto da Maria Cera il nov 4 2012. Registrato sotto FULL OF GRACE, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione