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dal Novi Matajur
25 aprile e 10 febbraio. Liberazione e foibe. Ricorrenze che ogni anno, puntualmente, portano a polemiche e distinguo e finiscono col diventare più strumenti per la diatriba politica che momenti di riflessione sul sanguinoso passato su cui è nata la Repubblica Italiana. La decisione del sindaco di Cividale Stefano Balloch e del collega di partito e sindaco di Tolmezzo, Dario Zearo, di organizzare un “25 aprile del centro-destra” a Cividale, alternativo alla manifestazione di Udine, è solo un esempio della strumentalizzazione per fini politici contingenti (il prossimo anno ci sono le elezioni regionali) di un'occasione che, solo nelle intenzioni, dovrebbe invece unire.
Fatti analoghi comunque non avvengono solo qui in regione. Basti pensare ad una delle ultime proposte del governo Berlusconi che voleva, di fatto, togliere il rango di festività nazionale alla Liberazione con la poco credibile scusa della crisi economica. La differenza forse è che a noi che viviamo a ridosso dell'ex-cortina di ferro, tutto ciò non sorprende affatto. Come in fondo non ci sorprende neanche un certo tipo di retorica pseudo-storiografica che negli ultimi vent'anni è piuttosto di moda. Quella che vorrebbe equiparare partigiani e repubblichini. Meglio: che vorrebbe criminalizzare in toto i partigiani rossi (che lottarono contro l'Italia) e rivalutare i fascisti post-armistizio che invece la patria la volevano difendere ma che si schierarono, per una serie di sfortunati eventi, dalla parte sbagliata. E come potremmo essere spiazzati noi da queste tendenze recenti se alla sfilata per la liberazione di Cividale - il primo maggio 1945 - parteciparono anche i repubblichini (qualcuno molto più coerentemente si rifiutò) che fino alla sera prima erano di stanza a San Pietro, agghindati in fretta e furia con i fazzoletti verdi della Osoppo al collo?Allo stesso modo non ci sorprende la selezione chirurgica dei fatti storici che troppo spesso caratterizza la “giornata della memoria” del 10 febbraio. Quando si ricordano le “decine di migliaia di infoibati” e la “pulizia etnica” dei titini nei confronti degli italiani dalmati e istriani, ma si dimenticano la precedente occupazione italiana, i campi di concentramento (Visco, Gonars, Arbe) per sloveni e croati, i villaggi dati a fuoco e le esecuzioni sommarie del regime fascista nell'allora provincia di Lubiana. Queste sì dettate dallo sprezzo razzista, parte integrante dell'ideologia del regime, che vedeva nei Balcani e nella Slovenia il naturale bacino di espansione per la superiore stirpe italica. Noi che viviamo da queste parti, infatti, sappiamo bene che è stato proprio l'immediato dopoguerra ad aprire quella frattura che purtroppo ancora caratterizza la nostra società politica, o quel poco che ne resta. Dove non erano riusciti del tutto né l'assimilazione nazionalista del Regno di Italia, né il fascismo, è riuscita la contrapposizione fra blocchi ideologici, politici ma anche e soprattutto economici. Gli “anni bui della Slavia”, come li aveva efficacemente definiti una pubblicazione di qualche anno fa. Gli anni in cui si mescolarono le contrapposizioni ideologiche con quelle etniche e nazionaliste, ragioni di politica internazionale e interessi di gruppi locali, creando un'intersezione di piani su cui è difficile ancora oggi fare chiarezza. Ed è difficile perché quei motivi di frattura sono ancora attuali. Non fraintendiamoci: ben vengano gli appelli delle istituzioni all'unità. Mai come oggi, in tempi di crisi economica e con i ricordi della guerra sempre più sbiaditi, sarebbe anzi necessario salvaguardare la memoria storica di quei giorni. Una storia però che sia il risultato di un confronto democratico sui fatti, un processo dal quale si chiarisca la differenza tra interpretazioni legittime di due parti che sono state in conflitto, dalle basse speculazioni propagandistiche.http://www.novimatajur.it/
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