di Marco Cappato, Consigliere del Gruppo Radicale federalista europeo al Comune di Milano, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni
Il Manifesto - 20 gennaio 2015
Prima il metodo: la “governance” economica europea non è “governo” perché è il risultato di una selva di trattati tecnicamente complicatissimi cresciuti attorno al fiscal compact e sottratti ad un processo democratico. Non vale obiettare che la responsabilità è comunque di governi democratici, perché il filtro della governance è opaco e tecnicistico al punto da non tollerare interazione con l’opinione pubblica. Una vittoria di Tsipras impedirebbe ai protagonisti della governance europea di operare prescindendo dall’opinione pubblica di un paese europeo che raccoglie ampi riscontri anche in altri paesi. I Greci possono avere torto, ma l’ostilità contro Bruxelles e Berlino è problema europeo prima che greco. La democratizzazione federalista delle politiche economiche europee è obiettivo non più rinviabile, e il semplice fatto che Tsipras sia favorito sta obbligando l’Unione europea (e la Germania nell’Ue) a trattare la questione più seriamente, a partire dalle trattative sull’acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea.
Se vince Tsipras, infatti, la linea Draghi esce rafforzata nella richiesta di riforme istituzionali nella direzione federalista, per trasformare l’acquisto di debito pubblico da misura d’emergenza a soluzione strutturale di governo europeo dei debiti sovrani; si rafforza la proposta di Michel Rocard che la Banca centrale europea possa prestare direttamente a tasso zero ai paesi in avanzo primario, attivando il ciclo virtuoso della diminuzione del costo del debito.
Solo così esiste una speranza di arrivare a ridurre gradualmente debiti consistenti, magari riuscendo, paradossalmente, ad evitare ciò che Tsipras propone: la ristrutturazione dei debiti nazionali, che potrebbe comunque essere necessaria in paesi come l’Italia, come lo è stata per la Grecia (ma la Germania è riuscita a scaricare il costo sul fondo monetario internazionale invece che sulla banche tedesche) o come lo fu nel ’53 per la Germania, quando la comunità internazionale evitò di ripetere l’errore dell’umiliazione del debito che dopo la prima guerra mondiale spianò la strada al nazismo.
Passando dal metodo al merito, la speranza “liberista” in Tsipras è certamente meno scontata, ma è fondata. Finché un paese come il nostro è soffocato dagli 80 miliardi di interessi sul debito pubblico, l’ostacolo a politiche liberali è immenso perché l’effetto delle riforme finirebbe inghiottito dal pozzo senza fondo del debito e degli interessi, come accaduto per le riforme delle pensioni o per le privatizzazioni. Schiacciati dal debito, non rimane spazio per ricentrare la spesa dall’assistenzialismo al welfare, per disinvestire da aziende partecipate inefficienti e investire nella conversione ecologica e contro il dissesto idrogeologico. La popolarità di una rivoluzione liberale, ancora necessaria, era forte negli anni ’90 ma, dopo il boicottaggio anti-costituzionale dei referendum radicali, è oggi indebolita sia da 20 anni di promesse non mantenute da parte di chi ha usato i vessilli liberali per svendere privilegi monopolistici, sia dalla sensazione che ogni “sacrificio” sia vano di fronte ai vincoli di debito e deficit. Non è un caso se due economisti liberisti come Alesina e Giavazzi propongono di passare per lo sfondamento del vincolo del 3% del rapporto tra deficit e debito pubblico per realizzare riforme pur molto diverse o opposte da quelle di Tsipras.
Conoscendo gli epigoni italiani di Tsipras, dove la “sua” lista è servita da scialuppa di salvataggio per gli spezzoni della sinistra conservatrice italiota, c’è certamente il rischio che sia usato o si lasci usare per riproporre soluzioni stataliste, corporativiste e di difesa di ciò che rimane dell’iniquo welfare dei garantiti (che sono sempre di meno) contro gli ultimi (che sono sempre di più). Il rischio c’è, ma è meglio correrlo, perché l’alternativa è la certezza depressiva e antidemocratica della “governance” europea. Una boccata di ossigeno federalista europeo, e magari persino liberale, può essere una delle conseguenze della eventuale vittoria di Tsipras.