di Davide Piacenza
ltimamente ha fatto davvero molto discutere un articolo apparso su Foreign Policy – il bimestrale americano di politica ed economia – a firma Michael Moynihan: “Leftist Planet” (Internazionale l’ha tradotto nel numero del 14 settembre col titolo “Il giro del mondo con la guida a sinistra”). Nel pezzo, originariamente pubblicato il 13 agosto scorso, l’autore porta avanti una critica impietosa nei confronti delle celebri guide Lonely Planet e Rough Guides. Il motivo? Entrambe, in breve, sarebbero propense a giustificare o presentare sotto vesti accomodanti le dittature di molti dei paesi recensiti.
Moynihan inizia tracciando un parallelo con quanto successe a partire dagli anni ’30, quando la rivista americana di sinistra The Nation aveva parole dolci per l’Urss e – addirittura – il Kgb. “Durante la guerra fredda, questo genere di turismo ideologico era una prerogativa quasi esclusivamente della sinistra [...] e, anni dopo il crollo del Muro e dell’Unione Sovietica, gli sconfitti della guerra dell’ideologia possono ancora partecipare a costosi reality tour nella Cuba di Fidel Castro o nel Venezuela di Hugo Chavez”.
C’è di peggio, anzi: ” [le guide] seguono tutte lo stesso schema: un riconoscimento formale della mancanza di democrazia e libertà seguito da esercizi di relativismo morale“. O ancora “l’immancabile ritornello secondo cui l’arretratezza economica dovrebbe essere vista come autenticità culturale, per non parlare di un lodevole rifiuto della globalizzazione e dell’egemonia statunitense”.
Queste parole vengono giustificate dal giornalista col preciso riferimento ad alcune guide Lonely Planet – Libia, Iran, Corea del Nord – e a passi che tenterebbero di ridimensionare i crimini di dittatori come Gheddafi e Ahmadinejad. Tuttavia, come spiegato dal direttore editoriale di Lonely Planet Stephen Palmer in una lettera inviata a Foreing Policy, i brani utilizzati da Moynihan si riferiscono a pubblicazioni precedenti a importanti eventi politici o addirittura fuori produzione. Senza contare che spesso sarebbero del tutto decontestualizzati (esempio: come spiega Lee Marshall su Internazionale, l’autore utilizza un pezzo in cui Kim Jong-il viene descritto come “aperto al cambiamento”; in realtà, nelle pagine precedenti della guida Lonely Planet gli abusi e la mancanza di libertà in Corea del Nord sono regolarmente denunciati, ma l’attitudine del figlio è sottolineata essere meno totalitaria di quella del padre).
Il pezzo apparso su Foreign Policy ha, a mio modo di vedere, dei limiti evidenti: innanzitutto postula che chi viaggia sia un idiota (o meglio: un idiota di sinistra) e voglia, nella maggior parte dei casi, essere impastoiato con racconti di un’età d’oro che il mondo occidentale avrebbe perduto. In secondo luogo Moynihan, nella sua pur interessante critica a un certo tipo di turismo, dimentica colpevolmente che qualunque viaggiatore cerca di marcare la sua esperienza con qualcosa di caratteristico. Non solo il figlio dei figli dei fiori, il punkabbestia o qualunque altro stereotipo “di sinistra” possa venire in mente.
Sappiamo bene che l’occidente non è solo Mc Donald’s, globalizzazione e spietate multinazionali, certo. Ma sappiamo anche che in viaggio tutti – dai romantici neo-sessantottini ai miliardari del Texas – premiano le mete caratteristiche, diverse e, in qualche misura, “autentiche”. La lunga critica concertata dall’autore sarebbe anche valida, se solo riuscisse a provare di aver la casa zeppa di album di foto scattate negli stabilimenti sudamericani della Coca Cola.