Rimembravo recentissimamente (cioè ieri sera, avendo avuto la malauguratissima idea di vedere l’inizio del festival di Sanremo) sui miei trascorsi di diritto tributario.
Poca roba, in realtà. Tanto quanto sarebbe bastato per fare il ministro delle finanze.
Rimembravo la differenza che passa tra le imposte, le tasse e i canoni (con l’accento sulla “a”, onde evitare bibuleggiamenti vari…).
Le imposte sono soldi che lo Stato o gli altri enti pubblici territoriali incassano e che sono prive di vincolo di destinazione: vengono cioè restituite ai cittadini sotto le più svariate forme. Case, scuole, strade, ospedali, pubblica sicurezza, cultura, ecc. Le imposte in genere sono progressive, cioè chi più ha, più paga, non soltanto in termini reali, ma anche in termini percentuali. Le imposte di scopo, cioè istituite per finalità specifiche, sono un’anomalia, e infatti credo che forse paghiamo ancora qualche imposta legata alla guerra di Libia…
Le tasse, invece, sono legate alla fruizione di uno specifico servizio. Vengono pagate ovviamente soltanto da chi usufruisce di quel servizio. Possono essere calibrate sul reddito del cittadino oppure no. Se lo sono, in genere occorre dimostrare di avere diritto alla loro riduzione.
Poi ci sono i canoni, che in pratica sono tasse legate alla fruizione di particolari servizi pubblici. Tipici sono, per esempio, i canoni demaniali.
Orbene, tra questi ultimi vi è uno dei canoni che è forse quello più odioso e iniquo di tutti, cioè il canone RAI. Io sono uno di quelli che lo ha sempre pagato diligentemente, incazzandomi pure con chi invitava (e invita) all’evasione.
Ammesso e non concesso che sia giusto che lo Stato chieda ai cittadini il pagamento di un canone per accedere all’etere, cioè per poter guardare la tv o ascoltare la radio, non si capisce perché il canone debba essere versato alla RAI.
Mi si può rispondere che la RAI è la concessionaria del servizio pubblico radio televisivo.
Il canone serve per tenere in piedi quell’immondo carrozzone che è appunto la RAI. E io non ho nessuna voglia di pagare il canone per vedere i tatuaggi inguinali di Belen Rodriguez. Perché ieri sera, con una mossa alquanto avventata, mi sono sparato circa tre quarti d’ora di festival di Sanremo e dopo avere visto la cagata dell’anteprima, la cagata dello studio stellare, le cagate delle battute dei conduttori e le cagate delle prime canzoni, mi sono chiesto: “Ma perché attendono così tanto per fare entrare le vallette… pardon, le collaboratrici?”
Beh, ora l’ho capito: perché bisognava uscire dalla fascia protetta, per dare il via a uno degli spettacoli più osceni che abbia mai visto. Dopo il comizio strapagato della prima serata (anche lì è andato un pezzo del mio canone), per fare odiens hanno pensato di andare sul volgare, anzi direi proprio sullo squallido. Se avessero preso una decina di prostitute di strada, lo spettacolo sarebbe stato più fine, avrebbero speso molto meno e avrebbero pure tolto dalla strada per una sera alcune povere disgraziate.
Mi chiedo: ma quanto avranno dovuto pensare i dirigenti RAI per mandare in tv (nella tv del servizio pubblico…) una donna senza mutande? Quanto guadagnano questi geni? Più o meno di diecimila euro al mese (netti, ovviamente)?
Sono stufo di finanziare queste stronzate.
Scriverò una lettera alla RAI: chiederò che mi restituiscano la mia quota di abbonamento relativa al cachet di Celentano, a quello di Belen e agli stipendi dei dirigenti che hanno tolto le mutande a quest’ultima. Entro trenta giorni, altrimenti gli espongo pure gli interessi.
P.S.: oggi sono stato impegnato fuori casa, ma non mi sembra di avere letto di vibrate e accorate proteste della Chiesa cattolica nei confronti dello smutandamento in diretta sulla tv del servizio pubblico. Evidentemente è più preoccupata dell’ICI…