Proseguono le interviste di Via dei Serpenti con Amara Lakhous, l’autore algerino di Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio, Divorzio all’islamica a viale Marconi, Un pirata piccolo piccolo, Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario (tutti pubblicati da e/o). L’abbiamo conosciuto alla libreria Pagina 348 in occasione del sesto appuntamento con “Libraio per un giorno”(il 17 maggio) e l’abbiamo intervistato alla libreria Risvolti, prima di un incontro con i lettori.
Amara Lakhous
Parliamo innanzitutto della tua esperienza di “Libraio per un giorno” alla libreria Pagina 348. Come è andata?
È andata benissimo. È fondamentale per me, essendo scrittore, conoscere gli altri membri della squadra: oltre all’editore ci sono i librai ed è importante il gioco di squadra, svolgere un lavoro collettivo, perché l’autore da solo non va da nessuna parte. Io sono molto affezionato ai librai indipendenti e soprattutto a Pagina 348 e al mio amico Marco Guerra. Ogni volta che esce un mio libro vado da lui a presentarlo e vedo il lavoro straordinario di un libraio che pur trovandosi in una zona periferica è riuscito negli anni a motivare, a coltivare, a creare, a far amare i libri, come è successo per i miei romanzi. Quindi trascorrere una mattinata da lui, mettermi nei panni di un libraio, parlare di libri, è stata una bellissima esperienza.
Quali libri hai consigliato e quali “hai venduto”?
Ho consigliato alcuni classici come Don Chisciotte, Moby Dick, Madame Bovary di Flaubert, un romanzo di Philip Roth, autori italiani che sono anche miei amici, come Giancarlo De Cataldo e Massimo Carlotto. Ho cercato di far amare questi libri come li ho amati io e credo di esserci riuscito.
Qual è la tua libreria ideale?
La mia libreria ideale non è di certo un supermercato. Un libro è diverso dalle patate, dalle carote, dal cibo che si vende nei supermercati. Il libro ha bisogno di tante mediazioni. Ad esempio, un libro tradotto ha avuto la possibilità di vivere in un’altra lingua e questo non accade senza il traduttore. Anche il libraio è un mediatore straordinario quando conosce il mestiere, non quando lavora in un supermercato. Non ho mai visto qualcuno in un supermercato consigliare un libro. Quindi la libreria ideale è quella con un libraio che è innanzitutto un grande lettore e che riesce a parlare con semplicità e profondità dei libri che ama. In questo Marco Guerra è veramente il prototipo del libraio ideale. Voglio ricordare anche due altri amici librai, Enza e Riccardo Campino, hanno creato una scuola per formare i librai, anche loro sono straordinari.
Come sono le librerie in Algeria?
Purtroppo in Algeria molte librerie hanno chiuso, anche perché il mondo editoriale arabo è estremamente diverso da quello italiano. In Algeria non c’è la distribuzione. La fiera del libro che si svolge ogni anno è l’unico momento in cui gli editori incontrano i lettori che fanno la spesa di libri per tutto l’anno, comprano all’ingrosso. Nel passato c’era il modello socialista, le case editrici appartenevano allo Stato ed esisteva un sistema di distribuzione regolamentata. Poi tutto è stato smantellato, le librerie hanno chiuso e sono stati aperti ristoranti, pizzerie, caffè.
Quello che si conosce dell’Algeria in Italia è sostanzialmente un insieme di stereotipi, ignoranza e pregiudizi. Che cosa sta accadendo realmente nel tuo paese e nel mondo arabo, sul piano politico e soprattutto culturale?
Sul piano politico la situazione purtroppo non è diversa da quella di altri paesi arabi. C’è un problema di corruzione molto vasto, le regole non vengono rispettate, c’è una classe dirigente di basso profilo. Ma per fortuna c’è anche una società civile che cerca di reagire, con intellettuali, scrittori e giornalisti indipendenti. Su questo versante sono più ottimista, perché c’è un’effervescenza positiva.
Sei arrivato in Italia nel 1995. Perché non hai scelto, ad esempio, la Francia?
Ho scelto l’Italia perché sono uno scrittore spregiudicato, e su questo sono rimasto bambino in realtà, sognatore. Non aveva senso andare in Francia, la conoscevo già, nel bene e nel male. Volevo scoprire nuove strade, cercare in questo senso di essere originale. Poi da adolescente avevo scoperto il cinema italiano e ne ero rimasto folgorato. Quindi quando sono arrivato in Italia ho pensato che avrei avuto l’occasione per approfondire.
Sei arrivato come rifugiato politico e sei diventato cittadino italiano. Un percorso lungo e faticoso con un lieto fine, senz’altro un’eccezione ma anche un esempio di come la migrazione possa trasformarsi da necessità di fuga in opportunità di rinascita. Che cosa ne pensi?
Io sono stato molto fortunato per essere riuscito a partire dall’Algeria nel 1995, quando era quasi impossibile, difficilissimo. Certo, mi sono messo in gioco, ho rischiato. Non so se posso essere considerato un esempio. Ho cercato in questi anni di creare ponti, soprattutto sul piano letterario, perché sono uno scrittore bilingue, scrivo anche in arabo. Ho cercato di far conoscere la cultura italiana in Algeria e nel mondo arabo e di far conoscere la cultura araba in Italia. È questo il mio lavoro di intellettuale. Imparare a scrivere in una nuova lingua è stata una bellissima esperienza, come se fossi rinato un’altra volta. Sul piano linguistico cerco di compiere uno sforzo ulteriore, arabizzando l’italiano e italianizzando l’arabo, e scoprire così una via per l’originalità. Non ci sono, infatti, autori che scrivono in questo modo. Ho alcuni amici arabi che scrivono racconti in italiano, ma scrivere romanzi con una certa continuità nelle due lingue e rafforzare questo bilinguismo letterario è un caso senz’altro particolare.
Scrivi in arabo e in italiano. Il francese è la tua terza lingua. Perché non hai mai scritto in francese? Parlo francese molto bene e potrei anche scrivere in questa lingua, ma non lo faccio perché con il francese non sento l’intimità che vivo con l’italiano. Per scrivere in una lingua ci vuole una grande intesa, un grande amore. Io sono di lingua madre berbera, una lingua solo parlata. Avrei voluto studiarla ma dopo l’indipendenza del 1962 è stata censurata, messa al bando e l’ho imparata da mia madre. A scuola, per strada ho imparato l’arabo e in terza elementare ho cominciato a studiare il francese che ho avuto modo di approfondire e migliorare con i miei cugini emigrati in Francia. In Italia, quindi, ho iniziato a studiare l’italiano e lentamente si è creata questa intesa, talmente forte da farmi decidere di scrivere in arabo e in italiano.
Come avviene la scelta delle due lingue per i tuoi romanzi?
Allora funziona così. Il primo romanzo Un pirata piccolo piccolo l’ho scritto in Algeria in arabo però è stato pubblicato nel 1999 con una bellissima traduzione in italiano di Francesco Leggio. Nel 2011 il mio editore e/o ha pubblicato la seconda versione. Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio è uscito in italiano nel 2006 e lo avevo pubblicato due anni prima in arabo con il titolo Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda. Ho riscritto la versione araba in italiano, non ho tradotto, al limite ho tradito il testo originale. Invece con Divorzio all’islamica in Viale Marconi, uscito nel 2010, ho fatto una nuova esperienza. Ho scritto la prima stesura in italiano, poi ho aperto il file sul computer e ho riscritto la versione italiana. Ogni tanto cambiavo la tastiera, dall’arabo all’italiano e viceversa, scrivendo due versioni gemelle dello stesso libro, con titoli e copertine differenti, la stessa trama e gli stessi personaggi, anche se con nomi diversi.
Che cos’è la scrittura per te?
Per essere sincero e senza voler apparire arrogante, penso che la mia scrittura sia di grande innovazione, sul piano dello sguardo e della lingua. Innovazione dello sguardo perché ho alle spalle altre culture, altri occhi che mi consentono di osservare la società italiana diversamente dai miei amici scrittori “italianissimi”. Io sono uno scrittore italiano ma non italianissimo e tale condizione mi offre la possibilità di utilizzare altri strumenti per leggere la realtà. Basta citare l’ultimo romanzo, Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, dove ho iniziato davvero a lavorare sulla memoria italiana. Qui ho raccontato gli italiani che sono andati in Romania nell’Ottocento per fare i muratori, gli italiani a Marsiglia, i meridionali che si sono trasferiti al nord e sono stati discriminati, massacrati, umiliati pur essendo italiani, bianchi, cattolici. Insomma, metto le mani dove penso sia difficile intervenire per uno scrittore italianissimo. Sul piano linguistico, invece, l’innovazione è un dato di fatto. Io non ho frequentato la scuola italiana, ho altre lingue alle spalle, il mio è un italiano arabizzato forse con influenze berbere e francesi. Ho uno stile particolare, un modo di raccontare diverso che può arricchire la cultura italiana e anche quella araba, italianizzando l’arabo, appunto. Ma sono solo all’inizio, ci vogliono anni per fare un bilancio.
Nessuno dei tuoi libri è ambientato in Algeria. Perché?
I miei libri sono ambientati in Italia perché ho vissuto in questo Paese. Quando sono arrivato nel 1995 avrei anche potuto continuare a scrivere del mondo che avevo lasciato, ma ero talmente entusiasta e curioso che ho preferito dedicarmi all’Italia. Il romanzo Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio è nato proprio dal desiderio di narrare quello che avevo appena vissuto, la società multiculturale italiana fatta solo da napoletani, milanesi, torinesi, sardi. Mi affascinava l’idea di raccontare le molteplici culture che si incontrano e si scontrano, cominciano ad amarsi e a odiarsi. Ho cercato così di trovare una chiave narrativa, quella giusta; tutti abbiamo delle storie, infatti, ma la differenza tra uno scrittore e un altro è il modo di raccontarle. Io penso di aver trovato il modo migliore per raccontare l’Algeria, quello della commedia all’italiana. Nei prossimi progetti cercherò di esportare altrove questo genere. Sono andato a vivere in Francia dopo Torino e fra poco andrò negli Stati Uniti, potrò così sperimentare l’idea. Spero di tornare a parlare dell’Algeria nei prossimi romanzi.
Come è nato il rapporto con l’editore e/o?
Con e/o ho un rapporto bellissimo e non è nato per caso. Per anni, da lettore, ho seguito il mondo editoriale italiano e mi sono accorto che questa casa editrice era ideale per me, ho iniziato a corteggiarla. All’epoca lavoravo all’agenzia di stampa Adn Kronos e mi occupavo anche di cultura e libri per la parte araba. Lessi il romanzo La stella di Algeri dello scrittore algerino Aziz Chouaki, mi piacque molto e decisi di intervistarlo, presi contatto con l’ufficio stampa di e/o e così è iniziata la “storia”. Sono anche molto fortunato, perché con Sandro Ferri ho un rapporto diretto, è lui il primo a leggere i miei testi. Una opportunità che pochi autori penso abbiano di questi tempi.
I tuoi romanzi hanno titoli molto lunghi, con una connotazione spaziale ben precisa. Si può dire che già dal titolo si entra nella storia.
Sì, è così. Ho spesso parlato di un progetto letterario e queste sono alcune indicazioni molto chiare. Il titolo è un po’ come il nome di una persona, porta con sé un destino, alcune indizi. Curo molto il significato del titolo, e anche dei luoghi, perché anche il luogo è un personaggio del romanzo. Ho bisogno di andare a vivere in un posto per raccontare una storia. Per questo motivo sono andato a vivere a Torino, per due anni, per scrivere Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario e a settembre uscirà il nuovo romanzo La zingarata della verginella di Via Ormea.
Quartiere San Salvario a Torino
Che cosa puoi dirci del nuovo romanzo?
Il romanzo è sempre ambientato a San Salvario e Via Ormea è una delle più importanti del quartiere. Ho fatto passare due anni dal precedente, qui siamo nel 2008, e racconto un’altra storia secondo il modello della commedia all’italiana. Anche in questo nuovo romanzo c’è un lavoro sulla memoria, perché parlo dei rom e dei sinti piemontesi, zingari arrivati in Italia nel XV secolo. Il problema dell’Italia oggi è questa amnesia spaventosa, la paura di affrontare il passato anche se nel passato c’è un patrimonio di esperienze prezioso da cui trarre insegnamento.
I tuoi libri sono tradotti in molti paesi, anche in Giappone, dall’italiano al giapponese. Parli quindi di temi universali?
Sì, esattamente. La letteratura dimostra che ci sono molti punti in comune. Possono cambiare i nomi, i personaggi, ma i temi restano in realtà gli stessi. Il tema fondamentale è forse quello della convivenza con le nostre diversità. In Giappone ci sono moltissimi emigrati coreani, quindi anche lì si ritrovano gli stessi problemi di cittadinanza, di conoscenza, del passato.
Hai vissuto a Roma e Torino. Prova a dirci un aspetto positivo e uno negativo di entrambe.
Sono due grandissime città. Roma rimane il mio primo amore, è una città straordinaria e qui ho vissuto sedici anni. Poi ho avuto l’intuizione di trasferirmi a Torino per seguire i miei personaggi e ho scoperto una città meravigliosa, penso che sia la più bella città d’Italia. È vivibile, vivace sul piano culturale, una città che, paradossalmente, con la crisi della Fiat e la fine del modello fabbrica, ha scoperto nuovi scenari. Una città che si sta ricreando, ricostruendo, come sta accadendo a Berlino dove ho vissuto nel 2009. Una cosa negativa di Roma è il turismo di massa, come accade per molte altre città. A Torino c’è un problema di memoria. Qui la migrazione meridionale è vissuta ancora con vergogna. Ho incontrato spesso persone con un atteggiamento sprezzante nei confronti dei nuovi immigrati e poi scoprivo che loro stessi, migranti degli anni ’50 e ’60, avevano subìto il medesimo disprezzo. Non si sta facendo nulla al riguardo, è forse questo l’aspetto negativo di Torino.
Jhumpa Lahiri
Concludiamo con l’immancabile domanda: che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Attualmente c’è un bellissimo romanzo, La moglie di Jhumpa Lahiri (Guanda). Ammiro molto questa scrittrice perché abbiamo molti punti in comune, non solo la questione della migrazione, ma anche la scelta di scrivere in italiano. Lahiri vive a Roma da due anni. Ho appena finito di leggere, invece, Poteva andare peggio di Mario Pirani (Mondadori) che ho apprezzato molto. In particolare i capitoli dove lui racconta di quando nel 1961 fu mandato da Enrico Mattei in Tunisia per prendere contatti con l’allora governo provvisorio algerino. Ha incontrato personaggi chiave della storia algerina ed è stato testimone di un periodo di amicizia fra l’Algeria e l’Italia. È stato molto interessante leggere di questa esperienza.