Non credo di affermare nulla di nuovo dicendo che non si prova empatia che per ciò che si sente vicino. Si potrebbe addirittura sostenere che una buona misura della nostra capacità di provare empatia è data da quanto lontana da noi può stare una cosa prima che smettiamo di considerarla vicina.
Se gli orribili fatti di sangue verificatisi ieri a Parigi fossero successi a Bogotà, a Sidney o a Vladivostok questo non avrebbe ovviamente diminuito di un grammo la loro dirompente carica di morte e desolazione. Ma il fatto che abbiano avuto luogo proprio a Parigi mi rende il fardello di angoscia ancora più pesante da sopportare.
Sia io che Justyna amiamo molto Parigi, e dal nostro primo soggiorno nel 2007 per festeggiare i miei quarant'anni non abbiamo perso occasione per ritornarci. Senza poter dire di essere dei sopraffini conoscitori della città siamo però già nella fase in cui in un posto non si va ma ci si torna. Abbiamo ormai il nostro alberghetto nel 1er, i nostri ristoranti, le nostre strade, i nostri giri.
In qualche occasione abbiamo fatto coincidere la visita coi concerti che nella capitale francese ha tenuto la mia amica Irene; né abbiamo trascurato il tour sugli itinerari di Maigret, dal boulevard Richard-Lenoir alla Place des Vosges, all'immancabile foto sotto la targa azzurra del Quai des Orfèvres con tanto di pipa in bocca: la stessa foto che avranno fatto legioni di cretini come me, come me affascinati dalla pipa e dal commissario di Simenon.
Abbiamo ricordi di passeggiate invernali fatte di sera lungo i quais, con la neve che turbinava nell'aria; e di passeggiate primaverili godendo del silenzio di quell'autentica oasi di pace che è l'Ile Saint-Louis. Abbiamo il ricordo di quella volta che, stremati dal freddo e dal lungo peregrinare, ci siamo rifugiati per qualche minuto nell'Èglise de Saint-Roch, vicino alle Halles per scoprire che c'era nientemeno che Jean Guillou che suonava Liszt all'organo.
Abbiamo i ricordi di memorabili soupes d'oignon al Pied de Cochon e di commoventi choucroutes alla Brasserie Bofinger.
Abbiamo i ricordi degli incredibili cieli stellati di Van Gogh al Musée d'Orsay e delle ninfee di Monet al Musée de l'Orangerie.
Chissà, magari qualcuna delle vittime della follia sanguinaria di ieri ci sarà passata accanto per strada o avrà preso la metropolitana insieme a noi. Magari con qualcuno - cameriere, commesso o semplice passante cui abbiamo chiesto informazioni - avremo addirittura scambiato qualche parola.
È questo il groppo d'angoscia in più che queste stragi per me rappresentano.
Ecco, se in tutta questa vicenda c'è qualcosa che mi risulta davvero incomprensibile è il meccanismo col quale in nome di un'idea si può giungere a disprezzare tanto la vita propria e quella altrui. Come si possa azzerare la propria empatia fino al punto da non sentirsi vicini più a nessuno, nemmeno a sé stessi.
Siamo già travolti da un fiume di parole riguardo questa tristissima vicenda, e sarà così anche nei giorni a venire. Io spero solo che quanto prima le riflessioni si orientino sul terreno solido (perchè popperianamente falsificabile) dei sistemi di lotta e contrasto a questi fenomeni orribili e non su quello melmoso dello scontro di ideologie e civiltà.
Per il momento io mi limito a ripensare, con inutile dolore, a ognuna delle vittime di questa follia, a ognuna delle tante esistenze spezzate. A queste persone che oggi sento, per dirla con Baudelaire, mon semblable, mon frère.