Parlantina a parte, non sembra che Matteo Renzi abbia le idee molto chiare. Però ha il piglio napoleonico (de noantri, se volete), l’ottimismo della volontà (o della spudoratezza, fate voi) e può darsi che a forza di dare strattoni, anche a casaccio (anzi, sicuramente a casaccio), e con l’aiuto del Berlusca, riesca quantomeno a disincagliare il bastimento italico dai bassi fondali. Poi, naturalmente, bisognerà decidere quale rotta prendere. Non sembra d’altra parte che nei più nobili consessi europei si brilli per schiettezza e chiarezza. Però vi abbonda un certo fastidioso e reticente paternalismo. Ieri, ad esempio, ha parlato Mario Draghi. Il presidente della Bce, riferendosi chiaramente all’Italia, ha detto che «per i paesi dell’Eurozona è arrivato il momento di cedere sovranità all’Europa per quanto riguarda le riforme strutturali», sottolineando il fatto che «i paesi che hanno fatto programmi convincenti di riforma strutturale stanno andando meglio, molto meglio di quelli che non lo hanno fatto o lo hanno fatto in maniera insufficiente». Ora, capire quali siano questi paesi che «hanno fatto molto meglio» risulta piuttosto arduo, visto che nella “vecchia Europa” si registrano crescite trimestrali del Pil (nominale) pari a qualche stitico decimale. Inoltre, Draghi sa benissimo che le cosiddette (e mai ben esplicitate) “riforme strutturali”, proprio perché sono strutturali, non possono riflettersi positivamente nel breve termine sui numeri dell’economia, soprattutto sul troppo idolatrato Pil (nominale), che anzi nell’iniziale fase riformatrice potrebbe soffrire. E allora perché dice queste baggianate? Perché non dice tutta la verità? Politico anche lui?
Dire tutto il male possibile dei problemi strutturali dell’economia italiana si può e si deve, naturalmente. Però mi pare che ormai non solo in Italia ma anche nei civili paesi d’oltralpe e d’oltreoceano si conceda un po’ troppo alle ragioni (naturalmente) pressanti e miopi della politica. Scrolliamoci di dosso la tirannia dell’oggi e guardiamo le cose un po’ più da lontano: il fatto fondamentale di questi ultimi vent’anni, nel campo economico, non è forse proprio la progressiva “italianizzazione” delle economie occidentali? L’Italia è impiccata al suo debito da più di due decenni, e questo non le ha consentito facili e furbe (e assai poco lungimiranti) manovre espansive: la sua non crescita si spiega anche così. Mentre i numeri ci dicono che gli altri paesi del ricco Occidente, in buona sostanza, hanno fatto proprio questo, o con manovre classicamente stataliste (fondate appunto sul ricorso diretto al debito pubblico) o con l’incoraggiamento dato a quel credito facile (cioè ai debiti privati, anche contro la logica di mercato) che prima ha originato le bolle e poi, con lo scoppio delle bolle, la trasformazione dei debiti privati in debiti pubblici. Questo è il dato fondamentale: l’Italia ha un rapporto debito/Pil pubblico al 135%, ma l’aveva al 120% anche vent’anni fa; poco è cambiato, anche se è una consolazione del piffero; mentre sia i nostri vicini europei in genere, sia gli USA e sia la Gran Bretagna, che all’epoca avevano un rapporto debito/Pil che era, a spanne, un quarto, un terzo o al massimo una metà (in percentuale) del nostro, ora lo stanno velocemente avviando verso la soglia lugubremente simbolica del 100%, senza contare chi questa soglia l’ha già superata da tempo: l’Italia non è più l’eccezione. E tutto fa sospettare che in realtà la loro modestissima crescita si spieghi, almeno per il momento, almeno fino a quando le mitiche riforme strutturali non faranno il loro effetto, col fatto che possono ancora raschiare qualcosa dal fondo del barile del debito.
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