Magazine Cultura
Voi lo sapete che il passato, primo o poi, bello o brutto che sia, ritorna, sempre, vero? Sì che lo sapete, perché è capitato a tutti - prima o poi - di dover fare i conti con quello che ormai non siamo più, oppure con quello che vorremmo ancora essere.
Le mie rivoluzioni è un libro con andamento altalenante.
Un inizio che sfugge, che rincorre in continuazione il protagonista tra passato, presente e sogno.
Un inizio che fotografa, anche in modo un po' noioso, un passato fatto di presa di coscienza, di rottura con la famiglia, di impegno politico, di militanza appassionata.
La parte centrale fotografa una storia abbandonata, di marginalità, nonostante la passione politica. Si parla d'amore, di ortodossia ideologica, di alti e bassi dottrinali. Si odora aria di attesa, verso qualcosa di terribile.
Poi c'è l'ultima parte. La migliore. Dove la deriva terroristica prende il sopravvento, dove il passato tren'anni dopo presenta il conto, dove il ricordo e la paura si fanno largo a gomitate tra le trame narrative.
Questa ultima parte è bellissima, ricca di riflessioni sulla vita, sulla politica, sulla sconfitta degli ideali e sulla voglia, sempre più intensa, di farli rivivere.
E il parallelismo con la storia italiana di fine anni '60 e i decenni a venire e d'obbligo.
Colpisce, almeno nel libro, la commistione forte tra l'hippysmo e le bande violente di inizio anni '60 e i gruppi politici che con il '68 prendono il sopravvento nel movimento e rivoltano la società borghese perbenista.
C'è poco di politico in senso stretto in questi movimenti e molto di alternativa culturale, di protesta generica, di canne e sesso libero.
I nostri gruppi erano più ortodossi, più stretti in una morsa ideologica, e tutti tesi a cambiare la società.
Poi sappiamo tutti come è finita...
Il libro è bellissimo, comunque. Appassionante, riflessivo, accurato, malinconico, e con una bava, alla fine di speranza, utile a farci tirare avanti.
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