Lezioni condivise 108 – La sarda rivoluzione
31 gennaio 2016 @ 16,01
Le idi di febbraio del 1793 sono state fatali alla Sardegna per l’imperizia e indolenza dei rappresentati della Rivoluzione francese e per l’ennesimo errore di valutazione e disunità dei sardi.
Quell’anno – dopo aver occupato l’Isola di San Pietro (8 di gennaio) e avervi creato la repubblica rivoluzionaria dell’Isola della Libertà, secondo la politica di esportazione della rivoluzione – una sparuta flotta francese (si parla tuttavia di 4000 uomini) al comando dell’ammiraglio Laurent Truguet, si presentava nel golfo di Cagliari nei giorni della merla e bombardava la città; doveva trattarsi di colpi dimostrativi, antisabaudi, tendenti a metter paura ai piemontesi e dare un segnale ai sardi affinché si sollevassero; si era disposti a liberarli dal giogo sabaudo.
Nei giorni successivi i francesi sbarcarono a Margine Rosso (litorale di Quartu Sant’Elena) pensando di conquistare l’isola con l’appoggio dei sardi. Ma questi, considerato un gesto ostile quel bombardamento e visto che il viceré Balbiano e la sua forza militare si erano asserragliati in Castello (cittadella del potere), organizzarono milizie popolari.
In una giornata di nebbia, i francesi, che dovettero fare i conti con le siepi di figumorisca che chiudevano il litorale, sorpresi, non vedendo nulla, presi dal panico, si spararono tra loro, si ammutinarono e tornarono sulle navi, respinti in qualche modo.
Probabilmente fu una delle battaglie più beffarde della storia, oltre che per le paradossali ragioni logistiche, per il fatto che si fronteggiavano salvatori e potenziali salvati, i quali invece proteggevano i propri aguzzini, vigliaccamente in fuga e pronti ad arrendersi.
L’avvenimento ha diversi aspetti grotteschi, al di là della drammaticità vissuta dai protagonisti, ma obiettivamente poteva cambiare le sorti della Sardegna, liberarla da una dinastia fellona che avrebbe continuato ad opprimerla fino ai giorni nostri con i suoi eredi postfascisti. Certo, la nostra debole ventura in duecento anni non si sa quale sarebbe stata, visti anche gli sconvolgimenti della Francia negli anni successivi, ma magari non sarebbe stata peggiore di quella che ci è toccata con i furfanti Savoia e i vari italioti.
Visto il rocambolesco fallimento della missione i rivoluzionari francesi lasciarono Cagliari intorno al 20 febbraio.
Dopo qualche giorno le milizie sarde si sciolsero, ma tra aprile e maggio, si autoconvocarono gli Stamenti (il parlamento sardo), a loro modo di vedere non doveva finire lì, si tenne un animato dibattito, poi come al solito l’elefante partoriva un topolino: si elaborarono unicamente 5 domande (richieste) da presentare al re quale risarcimento per avergli salvato il culo.
Si chiedeva per i sardi di Sardegna un minimo di autogoverno, di autonomia. Venne quindi eletta una delegazione da mandare presso il re a Torino, capoluogo del Regno di Sardegna. I designati furono: Girolamo Pitzolo, Antonio Sircana, Domenico Simon, Michele Aymerich (vescovo di Ales), Francesco Ramasso, Pietro Maria Sisternes. I primi di settembre erano tutti a Torino, ma non solo il re non li ricevette, anzi ordinò che cessasse la riunione degli Stamenti a Cagliari.
L’organismo stamentario era un’assemblea dei tre ordini (reale – cioè civile -, ecclesiastico e nobiliare) creato dalla corona spagnola e mantenuto sotto i sabaudi, ma mai convocato come era previsto dalle norme della statualità sarda.
La delegazione venne ricevuta soltanto nel dicembre 1793, ma in sostanza non ottenne nulla, se non qualche velata illusione; infatti il 1° aprile 1794 il ministro Granari, per conto di Vittorio Amedeo III, respinse le rivendicazioni delle “Cinque domande”, senza neppure comunicarlo ai delegati, ancora a Torino: sette mesi, a non si sa che fare, per avere un rifiuto da tempo palese.
Il rifiuto venne comunicato al viceré perché ne informasse gli Stamenti, dai quali la delegazione apprenderà la notizia (!).
Mentre a Torino si dormiva occupandosi d’altro, a Cagliari, come se non bastasse l’umiliante e sferzante notizia, iniziò la repressione. Il 28 aprile 1794 venivano arrestati i supposti capi della rivolta, Vincenzo Cabras e Bernardo Pintor.
La cecità della reazione si confermò ancora una volta e l’insurrezione popolare nei quartieri di Stampace, Marina e Villanova non si fece attendere. Gli insorti conquistarono Castello e il Palazzo viceregio. Maturò la decisione di cacciare i piemontesi dalla Sardegna.
La Reale Udienza – composta da soli giudici sardi – gli Stamenti e le milizie popolari, solidali tra loro, realizzarono il governo autonomo dei Sardi.
Lo scommiato di tutti i piemontesi dall’isola (514, compreso il vicerè ed escluso il vescovo e pochi altri prelati) avvenne il 7 maggio; vennero cacciati con i loro bagagli, trasportati al porto dagli stessi insorti su carrette.
Ma lo spirito dei vespri durò poco; già a luglio prevalsero i conservatori che occuparono le maggiori cariche: Gavino Cocco (reggente la Reale Cancelleria), Girolamo Pitzolo (intendente generale), Antioco Santuccio (governatore di Sassari), Gavino Paliaccio, marchese della Planargia (generale delle armi). Così il 6 settembre 1794, la restaurazione era completata, giunse a Cagliari il nuovo viceré, Filippo Vivalda.
Nei primi mesi del 1795 il nuovo incaricato degli affari di Sardegna (conte Galli della Loggia), con i traditori Paliaccio e Pitzolo, progettò una sanguinosa repressione. Si inviarono a Torino liste di proscrizione dei capi della rivolta, si adottarono provvedimenti polizieschi e intimidatori nei confronti dei deputati agli Stamenti, ma questi li denunciarono al popolo; ne derivarono nuovi tumulti e Pitzolo e Paliaccio furono linciati nel luglio successivo.
Intanto a Sassari il timore della rivolta fece meditare al governatore Santuccio la secessione da Cagliari. Queste manovre provocarono nei villaggi del sassarese dei movimenti antifeudali a Thiesi, Semestene, Bessude, Bonorva, Torralba, Pozzomaggiore, Ozieri, Ittiri, Uri. Il popolo rifiutava di pagare le tasse e assaltava i palazzi baronali.
Questi moti si protrassero dal settembre ai primi mesi del 1796: i riformatori si allearono con il movimento antifeudale, cui aderivano preti rivoluzionari come Francesco Sanna Corda (Torralba) e Francesco Muroni (Semestene) e gli avvocati Gioacchino Mundula e Gavino Fadda.
Il 23 ottobre 1795 i commissari degli stamenti Francesco Cilocco, Francesco Dore, Giovanni Onnis, Antonio Manca, Giovanni Falchi, si impegnarono nel sostegno del movimento antifeudale e a novembre i comuni di Thiesi, Cheremule, Bessude, dichiararono di non riconoscere più l’autorità feudale. E’ l’avvio dell’abolizione del feudalesimo in Sardegna. In pochi mesi aderirono più di 40 villaggi.
Alla fine di dicembre le brigate antifeudali guidate da Cilocco e Mundula presero Sassari e condussero a Cagliari Santuccio e il vescovo Della Torre.
Il 13 febbraio 1796, Giovanni Maria Angioy venne nominato alternos (sostituto del vicerè) dagli Stamenti per il Capo di sopra (Cab”e susu) con l’incarico di affrontare il problema delle rivolte antifeudali. Entrò a Sassari osannato dalla folla il 28 febbraio. Era considerato dal popolo la loro guida contro i feudatari. In questi frangenti Francesco Ignazio Mannu scrisse l’inno antifeudale, noto come “Procura de moderare”.
A Cagliari intanto i rivoltosi moderati, Sisternes, Cabras, Pintor e Sulis, si allearono con i feudatari e con l’alto clero; anche gli Stamenti si schierarono in senso antigiacobino e cacciarono i seguaci dell’Angioy, tra cui Mundula e Fadda, proprio mentre tra sabaudi e francesi si pervenne alla pace.
Il 2 giugno 1796 Angioy iniziò la sua marcia verso Cagliari con lo scopo dichiarato di abolire il feudalesimo, ma già a Macomer incontrò l’opposizione dei nobili, mentre ad Oristano le sue milizie si diedero al saccheggio, mettendolo in forte difficoltà e isolandolo.
Pochi giorni dopo il re, con una mossa politica ingannevole, accolse le “cinque domande”, revocò l’autonomia ai sassaresi, destituì e inquisì Angioy, concesse l’amnistia ai rivoltosi di Cagliari, autorizzò la nascita di una milizia sarda, ma nessuna concessione venne in realtà attuata, anzi, in seguito alla ripresa del conflitto con la Francia (1799), Carlo Emanuele IV si rifugerà in Sardegna, e imporrà nuove tasse e maggiori soprusi, ogni impiego fu occupato da torinesi.
I reazionari si armarono contro l’Angioy, che rientrato a Sassari fu costretto a lasciare la Sardegna attraverso la Corsica; riparò a Genova e in altre città del regno, per poi stabilirsi definitivamente a Parigi, dove morirà nel 1808, dopo aver tentato fino all’ultimo di convincere la Francia a liberare l’isola.
In Sardegna intanto, gli Stamenti, sotto il controllo di nobiltà e clero attuarono una feroce repressione dei moti antifeudali nei comuni del sassarese, in particolare a Thiesi, Bono, Ossi, Usini, Tissi, Suni, Bessude. Ma la rivolta non fu doma e riprese nel settembre 1796 capeggiata da Cosimo Auleri e dai fratelli Muroni. Da vari villaggi, tra cui Bonorva si attaccò nuovamente Sassari. Tuttavia alla fine dell’anno la rivolta era sconfitta con processi sommari e condanne a morte. Ebbe inizio la restaurazione con il ripristino ancora più duro della tassazione, che già infieriva sulle popolazioni con le tasse più fantasiose (per tali approfondimenti vi rimando al mio saggio “Rivoluzionari in sottana”, Roma 2009).
Nel Settecento, dunque, il regno di Sardegna subiva più che mai la sorte legata alle vicende internazionali. Cessava di essere una delle Corone spagnole sotto Filippo V, in una Spagna ormai debole e sconfitta e dopo un passaggio all’impero Austriaco nel 1713 (trattato di Utrecht), per un capriccio dello stesso, passò ai Savoia con il trattato dell’Aia (1720). Insomma, il tentativo di riconquista spagnolo peggiorò la nostra situazione.
Dopo l’esperienza Giudicale, che vide la Sardegna autogovernarsi per almeno sei secoli, l’ingerenza di “papa” Bonifax che inventò dal nulla il fittizio Regno di Sardegna e Corsica, e lo donò al Regno d’Aragona, nominalmente, finché questi per una ingenuità politica del Giudicato d’Arborea non ne avviarono la reale conquista, trascinatasi per oltre un secolo e durata tra Aragona e Spagna, oltre tre secoli: da minor tempo siamo colonia italiana.
Da quando abbiamo perso l’indipendenza – venuta dopo altre dominazioni di vario genere, alcune delle quali non ostili e considerabili quasi come migrazioni di popoli nell’isola, conviventi in pace o meno con le popolazioni autoctone – noi sardi abbiamo visto solo domini che si sono preoccupati unicamente di imporre tasse, sfruttare e distruggere il territorio.
Molti errori sono stati fatti nel passato: dal fidarsi di alleanze pericolose fino alla svendita della statualità, ma quanto questi, hanno pesato le divisioni, riporre fiducia su parti sbagliate e su chi non aveva a cuore le sorti della Sardegna.
Giovanni Maria Angioy è stato l’ultimo a voler riunire la Sardegna sotto un governo di sardi (non di regnanti stranieri) ed è stato lasciato solo. Non solo, come si noterà dalle fasi della rivolta sopra esposta, alcuni di coloro che la avevano compiuta, come i Cabras, i Pintor e perfino Vincenzo Sulis (che poi pagherà personalmente la fiducia in Carlo Feroce), furono gli stessi a reprimere i moti antifeudali e a favorire la restaurazione.
Quella che celebriamo come “Sa Die”, il 28 aprile (1794), è stato solo l’inizio di un incendio che doveva essere mantenuto acceso, invece, senza che nessuno ci attaccasse, abbiamo pensato noi stessi a spegnerlo, a chiedere ai feudatari e soprattutto al re, prego accomodatevi, continuate a tassarci e a spoliarci, noi e le nostre terre. Vincenzo Sulis pagò – e non ne fu pago sembrerebbe – la sua fedeltà ai sabaudi con 20 anni di carcere in una torre, comminati dagli stessi.
Dopo di allora solo fuochi fatui… Benei, fadei, xadei, pighei, furei su chi ‘oleis (come cantano dr. Drer e Crc posse).
E’ davvero paradossale: l’unica volta che qualcuno è venuto in nostro aiuto e poteva liberarci dai sabaudi, lo abbiamo respinto.
(Storia del risorgimento – 30.4.1997) MP
Commenti (1)
LE NOSTRE RETROCESSIONI
Jess
1 #
107.172.175.193
Inviato il 28/01/2016 alle 19:57
Hello, there’s even more now…